INTRODUZIONE


Alberto Burgos

Pio IX, Francesco Giuseppe e Luigi Napoleone: così a Caprera Garibaldi aveva chiamato tre dei suoi asini, e in questa irrisione provocatoria ritroviamo uno dei tanti piccoli episodi che ci descrivono Garibaldi meglio dei ritratti faziosi (pro e contro) dell’epoca, o della cronachistica dei libri di testo a cui nessuno di noi ha potuto sottrarsi.

"Era una mistura di eroe, santo, capo nazionale, re senza corona della gente comune" [le indicazioni bibliografiche qui vengono omesse] e le cinquecentomila persone che nel 1864 lo attesero per le vie di Londra, costringendo la sua carrozza a percorrere tre miglia in quasi sei ore, diedero vita a quella che è stata la più grande manifestazione popolare dell’Ottocento.

Sì, perché Garibaldi fu senza dubbio uno dei personaggi più famosi, e più amati, dell’epoca. Pensiamo a uno dei grandi rivoluzionari del XX secolo, quell’Ernesto Che Guevara il cui viso è ormai una delle icone del millennio: una vita avventurosa, una notevole, e sottovalutata, produzione teorica, una modesta capacità strategica sul piano politico - militare. Eppure è il primo aspetto che, combinato alla tragica fine dell’uomo, ha fatto impallidire la realtà, confermando che non solo nel West "se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda".

Ma Giuseppe Garibaldi non fu solo un grande eroe, anche se raramente questo termine è stato più appropriato: fu un marinaio notevolissimo, in grado di governare con perizia le più svariate imbarcazioni; fu un formidabile uomo d’armi, conquistandosi l’ammirazione dei più brillanti strateghi dell’epoca, alcuni dei quali sperimentarono sulla pelle dei propri soldati le capacità straordinarie di quel generale che non aveva frequentato alcuna Accademia; fu un uomo che non si accontentò mai della bellezza femminile (che pure frequentò con assiduità e successo) ma, soprattutto in Anita, seppe cercare nella donna amata il coraggio, la solidarietà, l’intraprendenza, la forza d’animo, in qualche modo già prefigurando una parità fra i sessi che è tutt’oggi problematica; fu persona di estremo rigore morale, tanto che questa sua dirittura gli impedì di cogliere le sfumature complesse e inevitabili della politica moderna.

"Il mondo è governato da demoni e chi assume il potere e la forza come mezzi viene a patti con potenze diaboliche, ed è per questo che non è vero che dal bene nasce il bene e dal male nasce il male; molto spesso è vero il contrario. Chiunque non veda questa verità è troppo ingenuo per fare politica": queste parole di Max Weber avrebbero fatto sicuramente infuriare un Garibaldi che per tutta la vita fece politica, che impugnò le armi solo perché erano l’unico mezzo possibile per costruire la libertà, ma che mal sopportava le angustie diplomatiche e i percorsi inevitabilmente tortuosi della politica.

Ciò non significa accettare banalmente lo stereotipo di un Garibaldi ingenuo ed irruente. Aveva senza dubbio entrambe queste caratteristiche, che spesso non gli consentirono di cogliere la complessità delle situazioni, tuttavia in varie occasioni dimostrò di sapersi destreggiare abilmente rispetto agli intrighi e alle astuzie di avversari e sedicenti amici: basti pensare all’accortezza con la quale giocò la complicata partita di cui Cavour e Vittorio Emanuele volevano essere gli unici protagonisti.

Si può dire che fu la passione, nel senso più ampio del termine, a governare la vita di Garibaldi, a farlo diventare quasi suo malgrado (quasi…) il prototipo ideale dell’eroe di cui la letteratura ottocentesca aveva bisogno: un uomo coraggioso, capace, disinteressato, disposto al sacrificio, "un uomo toccato dal destino e conscio della missione a cui questo lo spinge; un uomo che impersona qualcosa che è già ineluttabilmente scritto e che al tempo stesso è artefice e fabbro della sua fortuna".

Insomma, Garibaldi non può più essere imprigionato nella semplificazione a cui ci ha abituato un’Italia ancora incapace di capire se stessa e la propria forza: un focoso guerriero usato da qualche astuto tessitore piemontese, un capopopolo in grado di infiammare le masse ma inevitabilmente destinato a soccombere di fronte al ben più arduo compito di governarle.

Nel suo furore anticlericale ("Senza la satanica razza dei preti l’Italia sarebbe una potenza di prim’ordine"), non aveva forse Garibaldi anticipato, con un certo schematismo, alcuni temi dell’analisi che più tardi - si pensi a Gramsci - altri faranno rispetto al ruolo avuto dalla Chiesa cattolica nella storia del nostro paese? E nel teorizzare la partecipazione popolare alla guerra - sempre che si tratti di una lotta per una giusta causa - non aveva forse evidenziato uno degli elementi decisivi dei grandi movimenti rivoluzionari del XX secolo? Analogamente, nel constatare con amarezza la totale mancanza di adesione dei contadini ai moti unitari, aveva ben compreso come la questione delle campagne fosse uno dei grandi nodi irrisolti del progresso italiano. E, ancora, non è per puro spirito umanitario che il deputato Garibaldi immagina grandi opere pubbliche che dessero lavoro ai disoccupati: c’è qui un’intuizione profonda sul ruolo sociale dello Stato moderno che, seppur in modo semplicistico, prefigura le elaborazioni di Keynes e gli interventi voluti da F.D. Roosevelt nel Tennessee e nelle altre zone arretrate degli Stati Uniti.

Se si pensa che in Italia le prime vere riforme sociali non vennero messe in cantiere che molti decenni dopo, è assai significativo che Garibaldi avesse già in mente un mutamento radicale in vari settori: innanzi tutto in quello dell’istruzione, non solo immaginando una scuola aperta a tutti, in modo da superare l’analfabetismo in cui versava la stragrande maggioranza della popolazione, ma prospettando un sistema educativo in grado di garantire quella che oggi chiameremmo formazione professionale diffusa e permanente.

Garibaldi tuona contro i governanti inetti ed è convinto che nei momenti di emergenza la dittatura sia l’unico modo per affrontare concretamente i problemi; bolla d’infamia le monarchie che aumentano i propri appannaggi e i ministri che si fanno corrompere, ma non vede l’essenza dei meccanismi economici che garantiscono il privilegio; disprezza i notabili e i politicanti senza però esser in grado di avvertire la complessità delle strutture di uno stato moderno; si commuove per i generosi che l’hanno seguito e conclude che i tanti rimasti a casa sono semplicemente schiavi dell’egoismo umano; inveisce contro la litigiosità permanente dei progressisti e agita velleitariamente la bandiera dell’unità a tutti i costi delle forze democratiche.

Terribilmente astratta quest’idea di unificare culture politiche ed esperienze organizzative assai lontane fra loro (si andava dalle prime associazioni sindacali alle logge massoniche, dai club letterari ai gruppi più cospirativi), ma è indubbio che c’era qualcosa di irresistibilmente affascinante in una simile utopia necessaria.

Contraddizioni evidenti, comunque, analisi politiche certamente un po’ grossolane, tanto da attirarsi i commenti sarcastici di Marx, e tuttavia quanti, almeno in Italia, meglio di lui seppero coniugare coerentemente passione e azione, dichiarazioni d’intenti e capacità di mobilitazione, generosità e realismo?

Il suo dissidio con Mazzini e con Cavour è spesso stato visto come frutto di una sorta di competizione, o addirittura come un fatto caratteriale: non mancano davvero elementi di questo tipo, come pure sono notevoli le diversità di formazione culturale, ma è soprattutto l’agire politico che li divide. Il radicalismo mistico del primo e la fredda lucidità da vero statista del secondo non potevano che essere all’opposto della visione che Garibaldi aveva della vita e della politica: impulsività, velleitarismo forse, ma un profondo e concreto senso di appartenenza al popolo. Al popolo dell’umanità, disse egli stesso quando aderì all’Internazionale socialista ed espresse il proprio appoggio alla Comune di Parigi.

Repubblicano agli ordini del re, prudente e temerario, anticonformista con un debole per le signore vestite comme il faut, rivoluzionario e dittatore, generale senza eserciti, mangiapreti adorato più di un santo, sovversivo e deputato in due parlamenti nazionali.

Un insieme di antinomie che fortunatamente incrinano l’involucro sacrale in cui Garibaldi è stato rinchiuso e contribuiscono a rendere ancor più vitale e affascinante la personalità di quest’uomo.

E forse la lettura delle pagine che seguono potrà aiutare a restituircene la vera dimensione.

NOTA EDITORIALE

La riscrittura delle Memorie si è basata sull’Edizione Nazionale degli Scritti di Giuseppe Garibaldi, a cura della Reale Commissione, Cappelli Editore, 1932. In particolare, per le Memorie si è fatto riferimento al volume che riporta la Redazione definitiva del 1872.
Questa scelta è ovviamente dovuta a ragioni di completezza e di rigore filologico, che non contrastano con l’esigenza divulgativa che è alla base di questo nostro lavoro.
Riscrivere un’opera è già, per definizione, un’operazione arbitraria: nel momento stesso, quindi, in cui abbiamo deciso di intraprendere questa strada, avevamo piena consapevolezza delle insidie che avremmo incontrato e delle perplessità che qualcuno avrebbe potuto sollevare.
Del resto è un problema, insolubile, di fronte al quale si trova chiunque si accinga a tradurre da una lingua straniera. Certo, Garibaldi non ha scritto in una lingua straniera, ma la domanda che ci siamo posti è molto semplice: quella prosa ottocentesca, oltre a tutto uscita dalla penna di un uomo che amava scrivere (e che si è cimentato anche con la narrativa) ma era perfettamente consapevole di non essere un letterato, era ancora adeguata e fruibile?
Un quesito apparentemente improprio, e senza dubbio privo di senso se ci accostiamo a Dante, Ariosto, Machiavelli, che tuttavia ci mette di fronte a un dato di fatto difficilmente confutabile: un’opera come le Memorie di Garibaldi oggi non riuscirebbe a diventare patrimonio del grande pubblico. Per le sue asperità linguistiche, per lo stile oltremodo retorico, per la sua stessa natura di composizione autobiografica immaginata per i contemporanei dell’autore.
Riteniamo, invece, che le Memorie mantengano un eccezionale significato.
Di qui la necessità di riproporle in una forma che ne agevolasse la lettura anche da parte di chi non è uno studioso.
Il primo intervento, dunque, è stato sul linguaggio. Pur volendo mantenere sempre lo spirito e lo stile originari, abbiamo "tradotto" - intervenendo sia sulle parole che sulla costruzione sintattica - in modo che qualsiasi lettore potesse facilmente cogliere l’essenza dell’opera, apprezzandone tutte le caratteristiche.
Si è poi reso indispensabile alleggerire il testo sotto vari aspetti: la preoccupazione dell’Autore di riportare "rettamente" lo svolgimento dei fatti, lo induce spesso a descrizioni eccessivamente minuziose di taluni scontri militari e dei relativi problemi logistici; la passione umana e politica che ha animato tutta l’esistenza di Garibaldi tende a riemergere di continuo, prepotentemente, portando alla ripetizione parossistica di invettive anticlericali, appelli patriottici, denunce sull’inettitudine dei governi; così come non manca una certa prolissità nell’elencare nomi di persone (che comunque abbiamo cercato di riportare quasi integralmente) e di luoghi.
Naturalmente i tagli, evidenziati dalle parentesi quadre, non hanno mai inteso avere il benché minimo proposito censorio, tant’è che sono riportate fedelmente, ad esempio, alcune infelici frasi di sapore antisemita.
Viceversa, è fuori di dubbio che in varie circostanze Garibaldi si è mostrato reticente, in particolare su episodi strettamente personali (valga per tutti l’inizio della relazione con Anita, che era una donna sposata, narrato sbrigativamente nel capitolo "Innamorato") o su specifiche questioni politiche, ma occorre sempre tener presente che non siamo di fronte all’analisi di uno storico, bensì alla memoria di un protagonista. Memoria soggettiva, dunque, sia nella ricostruzione meccanica dei fatti sia nel modo di presentarli.

Le note delle Memorie sono di Garibaldi (salvo diversa indicazione), quelle delle altre parti del libro sono del curatore; generalmente vengono omessi, nel sito, i riferimenti bibliografici completi.