PRIMO PERIODO 1807 - 1848

I MIEI GENITORI

Non posso cominciare a raccontare la mia vita senza far cenno ai miei cari genitori, che col loro carattere ed il loro affetto sono stati decisivi per la mia formazione.
Mio padre, figlio di marinaio e marinaio lui stesso, non aveva certo l’istruzione che hanno oggi le persone della sua condizione sociale: da giovane si era imbarcato sulle navi di mio nonno, in seguito aveva comandato le proprie. Ebbe alterne fortune e spesso lo udii affermare che avrebbe potuto renderci più agiati. Ma gli sono assai grato, perché non trascurò nulla per darmi un’educazione, anche quando, con pochi mezzi, ciò rese ancora più difficile la sua vita onesta.
Se poi egli non ritenne di farmi impartire altri insegnamenti, come la ginnastica, la scherma, e altre discipline del corpo, la causa è da ricercarsi piuttosto nelle abitudini di quei tempi: gli istitutori erano generalmente dei preti, che tendevano a fare diventare i giovani dei seminaristi o degli avvocati, invece che dei bravi cittadini in grado di esercitare professioni oneste e utili per il loro paese.
D’altronde l’amore per i suoi figli era sviscerato, e quindi si comprende come avesse paura che essi scegliessero strade pericolose. Questo timore paterno, dovuto appunto al troppo affetto, è forse l’unico rimprovero che mi sento di muovergli: infatti, per non espormi ai disagi ed ai pericoli del mare, fino ai quindici anni mi proibì d’imbarcarmi, come invece avrei desiderato.
E non fu una saggia decisione, perché sono convinto che un buon marinaio deve iniziare la propria esperienza da giovanissimo, possibilmente prima degli otto anni, soprattutto se può contare su maestri così esperti come i genovesi e gli inglesi. Far studiare i futuri marinai a Torino o a Parigi, e farli salire a bordo dopo i vent’anni, è un pessimo metodo: molto meglio farli studiare sulla nave, dove contemporaneamente fanno il loro tirocinio pratico.
E mia madre! Lo affermo con orgoglio: è un modello per tutte le madri, e con questo ho detto tutto. Ma se c’è una cosa che sento di dovermi rimproverare è proprio il fatto di non poterle donare la serenità che si merita in questi ultimi anni, dopo averla riempita di ansie ed amarezze durante tutta la mia esistenza burrascosa. Forse anche in lei l’affetto per il figlio è stato eccessivo, ma non devo forse al suo amore, al suo animo dolce, quel poco di buono che c’è nel mio carattere? Alla pietà di mia madre verso il prossimo, alla sua indole generosa, alla sua compassione per chi soffre, non devo forse quel tanto di spirito di solidarietà che mi ha fatto guadagnare la simpatia dei miei infelici ma buoni concittadini?
Oh, non sono certo superstizioso, eppure quante volte, nei momenti più difficili della mia vita avventurosa, uscito indenne dalle tempeste oceaniche o dall’inferno dei campi di battaglia, vedevo la mia cara madre inginocchiata al cospetto dell’Infinito, a implorare per la vita di suo figlio! E allora, benché non molto convinto dell’utilità delle preghiere, non potevo fare a meno di commuovermi, e di sentirmi, se non felice, perlomeno più sereno!

I MIEI PRIMI ANNI

Sono nato il 4 luglio 1807 a Nizza marittima, verso il fondo del porto Olimpio, in una casa sul mare.
Ho passato la mia infanzia come tutti i bambini, fra giochi, allegria e pianti, e preferivo più divertirmi che studiare. Infatti non mi sono giovato abbastanza degli sforzi fatti dai miei genitori per darmi un’istruzione. Nulla di strano nella mia giovinezza.
Avevo buon cuore e questi piccoli episodi lo possono testimoniare. Un giorno raccolsi un grillo e portandolo in casa gli spezzai una gamba per sbaglio: ne rimasi così addolorato che rimasi chiuso in camera mia per ore a piangere. Un’altra volta, mentre accompagnavo mio cugino a caccia lungo il fiume Varo, mi ero fermato ai bordi di un fosso piuttosto profondo, dove, come d’abitudine, le donne andavano a lavare i panni: una di queste, non ricordo perché, cadde in acqua, a testa in giù, rischiando di annegare, ed io, malgrado fossi piccolo e appesantito dal carniere, mi precipitai a salvarla.
Ecco, ogni volta ch’era in pericolo la vita di qualche mio simile, anche a rischio della mia non mi sono mai tirato indietro.
I miei primi maestri furono due preti, e credo che l’inferiorità fisica e morale della razza italica provenga proprio da questa pessima consuetudine. Del mio terzo maestro, di italiano, calligrafia e matematica, il signor Arena, conservo invece un caro ricordo. Se avessi avuto più buon senso e avessi potuto immaginare le mie future frequenti relazioni con gli inglesi, avrei potuto studiare meglio la loro lingua col mio secondo maestro, padre Giaume, un prete assai spregiudicato e assai esperto nella bella lingua di Byron.
Al signor Arena, che era un laico, devo il poco che so e gli sarò sempre riconoscente, soprattutto per avermi dato i primi rudimenti di italiano e di storia romana.
La carenza d’istruzione è diffusissima in Italia, e in particolare a Nizza, troppo a lungo restata sotto il dominio francese. Qui, all’epoca in cui sto scrivendo (1849), molti non sapevano neppure di essere italiani, tanto numerosa era la presenza di cittadini francesi e così diffuso il dialetto assai simile al provenzale; del resto il governo si è sempre disinteressato del nostro popolo, preoccupandosi solo di depredarlo e di portargli via i figli per farne dei soldati: tutte ragioni che hanno spinto i nizzardi all’indifferenza assoluta verso la patria, tanto da consentire a Bonaparte e ai preti, nel 1860, di sradicare questo bel ramo dalla madre pianta.
Quel poco che son riuscito ad imparare, dunque, lo devo a quelle prime letture di storia, e all’incitamento di mio fratello Angelo, che dall’America mi raccomandava di studiare.
Concludo il racconto di questa prima fase della mia vita con un breve episodio, che anticipa le mie future avventure.
Stanco della scuola e insofferente verso un’esistenza senza prospettive, un giorno propongo ad alcuni miei coetanei di andarcene a Genova: senza un progetto ben definito, a tentare la fortuna. Detto fatto: prendiamo un battello, carichiamo un po’ di viveri e di attrezzi da pesca, e via a remare verso levante. Eravamo all’altezza di Monaco quando una nave, inviata apposta da mio padre, ci raggiunse e ci riportò a casa, pieni di vergogna.
Un abate aveva svelato il nostro piano di fuga. Guarda che combinazione: un abate, l’embrione del prete, contribuiva forse a salvarmi ed io ero così ingrato da accanirmi con quei poveri preti. Comunque i preti sono impostori ed io mi dedico al culto della verità. […]

I MIEI PRIMI VIAGGI

Come tutto è reso più bello dall’ardore giovanile che spinge a lanciarsi verso l’avventura e l’ignoto! Com’eri bella, Costanza, con cui per la prima volta ho solcato il Mediterraneo e poi il Mar Nero! I tuoi fianchi poderosi, la tua alberatura snella, la tolda spaziosa, la polena a forma di florido petto femminile, rimarranno per sempre impressi nella mia memoria. Come seguivano agilmente il tuo rollio quei marinai sanremesi, vero esempio dei nostri coraggiosi liguri! Con che gioia mi precipitavo al balcone per udire i loro cori: cantavano d’amore, e m’intenerivano anche se quel sentimento mi era ancora sconosciuto. Ah, se avessero cantato di patria, d’Italia, di ribellione, di schiavitù! Ma chi aveva insegnato loro ad essere italiani, patrioti, capaci di lottare per la propria dignità? Chi diceva a noi giovani che c’era l’Italia, una patria da riscattare? Chi? I preti, i nostri unici maestri?
Fummo educati come gli ebrei e non ci additarono che l’oro come scopo della vita!
Mia madre, piena di tristezza, mi preparava il necessario per il viaggio verso Odessa con la Costanza, il brigantino comandato da Angelo Pensante, di Sanremo, il miglior capitano di mare che io abbia mai conosciuto. […]
Fu appunto il primo di innumerevoli viaggi, tanto che non avrebbe senso parlarne. Poi andai a Roma, con la Santa Reparata, la tartana di mio padre. Roma! Allora per me era la capitale del mondo, e oggi la vedo invece come la capitale della più odiosa delle sette!
La capitale del mondo, con le splendide vestigia di quanto di più grande ebbe il passato! La capitale di una setta che un tempo era composta da seguaci del Giusto, del liberatore degli schiavi, del profeta dell’uguaglianza, benedetto da infinite generazioni, e i cui sacerdoti allora erano gli apostoli dei diritti umani, e oggi sono dei degenerati, pronti ad ogni compromesso, vero flagello di un’Italia che hanno venduto allo straniero settanta volte sette!
No! La Roma che io vedevo da giovane era la Roma dell’avvenire, a cui mi sono rivolto quando ho fatto naufragio, quand’ero moribondo, o perso nel folto delle foreste americane! La Roma dell’idea di riscatto di un grande popolo, quell’idea che ha sempre ispirato il presente e il passato della mia esistenza, che ha segnato tutta la mia vita! [...]
Roma è l’Italia. Roma è il simbolo dell’Italia unita, sotto qualunque sistema la si voglia immaginare. E l’opera più infernale del papato era appunto quella di tenerla divisa, moralmente e materialmente.

[...]

CORSARO

Corsaro! Lanciato sull’Oceano con dodici compagni a bordo d’una garopera, si sfidava un impero e si faceva sventolare, primi in quelle coste meridionali, una bandiera di libertà! La bandiera repubblicana del Rio Grande! All’altezza dell’Isola Grande incrociammo una sumaca e la sequestrammo, mentre il Mazzini, non essendoci un altro pilota disponibile, fu affondato.
Rossetti era con me, ma non tutti i miei compagni erano dei Rossetti: voglio dire uomini di saldi principi; anzi, alcuni di essi, che già avevano un aspetto non troppo rassicurante, facevano il viso ancora più truce, per spaventare i nemici. Naturalmente io mi sforzavo di calmarli e di ridurre, per quanto possibile, la paura dei nostri prigionieri. Quando salii sulla sumaca, un passeggero brasiliano mi si fece incontro con aria supplichevole e mi offrì una scatola con tre preziosi brillanti: li rifiutai e ordinai che non venissero toccati gli effetti personali dell’equipaggio e dei passeggeri. I miei subordinati non trasgredirono mai questi ordini, nella certezza che su certi argomenti non ero disposto a transigere.
Prigionieri ed equipaggio furono sbarcati a nord della punta di ItapekoroÎa, dando loro la lancia della Luisa (questo era il nome della sumaca) in cui poterono caricare le loro cose e viveri in abbondanza.
Navigammo verso sud e dopo alcuni giorni arrivammo nel porto di Maldonado, dove la cordiale accoglienza delle autorità e della popolazione ci furono di buon augurio. Questa località si trova all’imbocco settentrionale del Rio della Plata ed è importante sia per la sua posizione sia per il suo discreto porto: lì trovammo una baleniera francese, e passammo allegramente, da corsari, alcuni giorni.
Rossetti andò a Montevideo per sistemare i nostri problemi ed io rimasi sulla sumaca per circa otto giorni; a quel punto l’orizzonte si fece cupo per noi e le cose avrebbero potuto prendere una piega drammatica se il capo politico di Maldonado fosse stato meno disponibile ed io fossi stato meno fortunato: questi mi comunicò che, contrariamente alle mie informazioni, la bandiera riograndense non veniva riconosciuta e che era giunto un ordine formale d’arresto per me e per la nave. Eccomi dunque costretto a prendere il mare, col maltempo portato da greco, e a dirigermi verso l’interno, lungo il Rio della Plata, quasi senza una destinazione precisa: infatti, avevo appena avuto il tempo d’informare una persona amica che mi sarei diretto verso la punta di Jesus-Maria, nei pressi delle scogliere di S. Gregorio, a nord di Montevideo, dove avrei atteso le decisioni prese da Rossetti e dai nostri amici della capitale.
Arrivammo a Jesus-Maria dopo una faticosa navigazione e avendo rischiato il naufragio sulla punta di Piedas Negras, a causa di una di quelle circostanze impreviste da cui dipende spesso l’esistenza. A Maldonado, col rischio dell’arresto e non potendo contare più di tanto sulla benevolenza delle autorità locali, mentre ero ancora a terra a sbrigare alcune faccende avevo dato ordine di sistemare le armi a bordo: così fu fatto, ma accadde che le armi, tolte dalla stiva, per essere più a portata di mano furono collocate in un camerino. Salpati di fretta, a nessuno venne in mente che le armi erano in un punto nel quale avrebbero potuto influenzare la bussola; per fortuna, dato che non avevo sonno e che si era alzata la bufera, mi tenevo sottovento del timoniere, cioè sul lato destro del bastimento, e quindi potevo osservare la costa fra Maldonado e Montevideo, molto pericolosa a causa dei numerosi scogli.
Era la prima guardia, dalle otto a mezzanotte, e c’erano buio e tempesta: tuttavia, per un occhio abituato a cercare la terra fra le tenebre, non era difficile scorgere la costa, tanto più che essa mi pareva più vicina, nonostante avessi ordinato al timoniere di tenere una rotta che ci portasse al largo.
"Orza una quarta! Orza un’altra quarta!". Devo aver fatto orzare più di un intero vento (cioè da quattro a cinque quarti) ma mio malgrado la costa era sempre più vicina.
Verso mezzanotte la guardia di prua grida "terra". Altro che terra! In pochi minuti ci trovammo avvolti da orribili frangenti, senza possibilità di evitare le nere punte degli scogli che affioravano: il pericolo era enorme, e l’unica via di scampo era precipitarsi negli spazi vuoti fra gli scogli e cercare un passaggio. Ebbi la fortuna di non perdere la testa: montai sul pennone di trinchetto e con tutta la voce dei miei ventotto anni urlai gli ordini per dirigere la nave verso i punti meno pericolosi e per far eseguire le manovre necessarie. La povera Luisa era squassata dalla furia del mare, con le onde che si abbattevano sulla tolda con la stessa violenza con cui colpivano gli scogli.
Uno spettacolo davvero nuovo per me fu vedere molti lupi marini, indifferenti alla tempeste, aggirarsi attorno alla nave, quasi giocando come tanti bambini in un prato fiorito. Le loro teste, però, erano nere come le rocce che ci circondavano, avevano qualcosa di minaccioso, e lo spettacolo non era certo rassicurante. Chissà che in quelle tetre zucche africane non ci fosse la prospettiva di un saporito pasto a base di carne umana.
Comunque la consapevolezza del pericolo dominava su tutto il resto, e fu davvero un caso straordinario poter uscire da quel labirinto senza danni, dato che il minimo contatto con quelle punte acuminate avrebbe mandato in frantumi lo scafo.
Come dicevo, arrivammo alla punta di Jesus-Maria, nelle barrancas di S. Gregorio, a circa quaranta miglia da Montevideo, verso l’interno del Plata. E solo quel giorno seppi dove erano state collocate le armi.
Alla punta non accadde nulla di nuovo, ed era normale, visto che Rossetti, ricercato dal governo di Montevideo, aveva dovuto nascondersi per sfuggire all’arresto e non poteva occuparsi di noi. I viveri scarseggiavano: non avevamo una lancia con cui sbarcare, eppure bisognava dar da mangiare a dodici persone.
Avendo scorto una casa a circa quattro miglia dalla costa, decisi di sbarcare su una tavola e di portare ad ogni costo viveri a bordo. Soffiava il pampero, il quale, essendo perpendicolare alla costa, rendeva l’approdo particolarmente arduo, anche con palischermi (piccolissime imbarcazioni): demmo fondo alle due ancore il più possibile vicino alla costa, ad una distanza pericolosa ma che in quel momento era indispensabile per arrivare a riva. Eccomi con un marinaio, Maurizio Garibaldi, imbarcati su di una tavola, sorretti da due barili e coi vestiti appesi a un’asta, come un trofeo: su quella nave di nuovo modello non navigavamo, ma ruotavamo nei frangenti di quella costa inospitale.
Il Rio della Plata circonda lo stato di Montevideo, detto anche Banda Oriental, alla sua sinistra, e dato che la regione è formata da colline, più o meno alte, il fiume ne ha eroso la costa e vi ha formato delle rupi, quasi uniformi, in certi punti altissime. Lo stesso fiume, sulla destra, lambisce lo stato di Buenos Aires, e vi porta le sue alluvioni, che con l’andare dei secoli sono andate formando le immense pianure de las Pampas.
Arrivammo felicemente sulla costa e approdammo con la nostra sconquassata imbarcazione; lasciato Maurizio a ripararla, mi avviai da solo verso l’abitazione.

[...]

PRIGIONIERO

È singolare che nella mia lunga carriera militare io non sia mai stato fatto prigioniero, pur essendomi trovato infinite volte in situazioni pericolosissime. E in quel frangente ovunque andassimo saremmo stati arrestati, dato che nessuno riconosceva la bandiera del Rio Grande del Sud.
Arrivammo a Gualeguay, paese della provincia di Entre Rios, dove ci furono di enorme aiuto il capitano Luca Tartabull, della goletta Sintoresca di Buenos Aires, ed i suoi passeggeri, tutti argentini. Quando incontrammo questa imbarcazione, alla nostra richiesta di aiuto quella brava gente si offrì di accompagnarci sino a Gualeguay, dov’erano diretti; di più, mi raccomandarono al governatore della provincia, Don Pasquale Echague, e questi, dovendo partire, mi affidò al suo chirurgo, Don Ramòn dell’Arca, un giovane argentino, il quale mi estrasse la palla dal collo e mi curò perfettamente.
Per sei mesi rimasi a Gualeguay, ospite di Don Jacinto Andreus, che insieme ai suoi familiari mi trattò con estrema gentilezza e generosità. Ma non ero libero! Malgrado tutta la buona volontà del governatore, e l’affetto della popolazione, non potevo partire senza un preciso ordine in merito da parte del dittatore di Buenos Aires, che non si decideva mai.
Guarito, potevo passeggiare e avevo il permesso di fare delle gite a cavallo entro un raggio di una dozzina di miglia. Potevo contare, oltre al vitto offertomi generosamente da Don Jacinto, su una modesta diaria: una condizione di grande benessere per quei paesi, dove tutto era decisamente a buon prezzo.
Ma tutto questo non valeva la libertà di cui ero privo.
Qualcuno, per amicizia o per la ragione opposta, mi fece capire che al governo non sarebbe dispiaciuto che io sparissi, e così, incautamente, decisi di sgombrare, credendo che ciò non sarebbe stato né molto difficile né gravido di conseguenze, e nemmeno considerato particolarmente grave.
Il comandante di Gualeguay era un tale Millan. Una sera di brutto tempo mi avviai verso la casa di un buon vecchio al quale ero solito far visita, a circa tre miglia dalla città: lo informai della mia decisione e gli chiesi di cercarmi una guida che coi propri cavalli mi potesse portare fino all’Ibicuy, dove speravo di poter trovare un’imbarcazione che mi portasse di nascosto a Buenos Aires o a Montevideo. Trovati sia la guida che i cavalli, ci avviamo attraverso i campi, per non essere scoperti. Dovevamo percorrere cinquantaquattro miglia, che al galoppo divorammo nella notte. All’alba eravamo in vista dell’Ibicuy, a quattro miglia dall’estancia con lo stesso nome; la guida mi disse di aspettarlo nel bosco mentre lui sarebbe andato alla fattoria per raccogliere informazioni. Smontai da cavallo e lo legai a una delle acacie di cui in genere sono formati quei boschi, che peraltro sono piuttosto radi, tanto che ci si può cavalcare agevolmente; me ne stetti ad aspettare, sdraiato, ma a un certo punto, vedendo che la guida non ricompariva, mi avviai a piedi verso il limitare del bosco; d’improvviso sentii dietro di me uno scalpitare di cavalli e vidi un drappello di cavalieri che con la sciabola sguainata mi si avventavano contro: erano ormai fra me e la mia cavalcatura e quindi era inutile tentare di fuggire o anche di resistere.
Mi misero su di un ronzino, legandomi le mani dietro la schiena e i piedi alla pancia dell’animale, e mi portarono a Gualeguay dove mi aspettava un trattamento ancora peggiore. Rabbrividisco ancora ripensando a quei brutti momenti. Il comandante Millan mi stava aspettando sulla porta della prigione e quando gli fui davanti mi chiese chi avesse collaborato alla mia fuga: resosi conto che non gli avrei detto nulla, cominciò a colpirmi brutalmente con la frusta che teneva in mano e dato che continuavo a tacere ordinò di far passare una fune su una trave della prigione e di tenermi appeso per le mani.
Due ore di tortura mi fece subire quel maledetto! Sofferenze che non si possono descrivere. [...] Quando mi sciolsero non mi lamentavo più, ero come un cadavere, e così mi misero i ceppi. [...]
Dopo pochi giorni fui condotto alla capitale della provincia, Bajada, dove rimasi in prigione per due mesi; poi il governatore mi lasciò libero. [...]

[...]

NAUFRAGIO

Pronti per la partenza, aspettammo l’ora della piena e verso le quattro del pomeriggio salpammo. In quell’occasione ci fu molto utile la pratica nello spingere le imbarcazioni tra le onde, altrimenti non so come avremmo potuto mettere in acqua i lancioni perché, pur avendo atteso l’alta marea, la profondità dell’acqua non era sufficiente. Comunque mentre cominciava a far notte i nostri sforzi furono premiati e gettammo l’ancora nell’Oceano, al di là dei furiosi frangenti, a circa seicento metri dalla costa. E si badi che nessun tipo d’imbarcazione era mai uscita dal Tramanadai.
Verso le otto partimmo con una buona brezza da sud, che andò aumentando fino a diventare vera e propria bufera, tanto che alle tre del pomeriggio seguente facevamo naufragio nei pressi dell’imboccatura del fiume Averinguà, con sedici marinai dispersi e col Rio-pardo, che comandavo io, distrutto. Vista la pericolosa situazione in cui si trovava il piccolo legno, che rischiava, da un momento all’altro, di essere sopraffatto dalle onde e di venir rovesciato, decisi di avvicinarmi alla costa ed approdare ad ogni costo. Ma il mare e la tempesta infuriavano sempre più, non ci diedero modo di scegliere il punto adatto e fummo travolti da un terribile maroso: in quel momento mi trovavo in cima all’albero di trinchetto, con la speranza di individuare un approdo non troppo pericoloso, e quando il legno si rovesciò sulla destra fui lanciato in quella direzione. Ricordo bene che, malgrado l’estremo pericolo, non pensai alla morte ma, preoccupato del fatto che molti dei nostri non erano marinai e non erano avvezzi alle bufere, mi diedi da fare per raccattare remi ed altri pezzi di legno, esortando tutti a prenderne uno per tenersi a galla ed aiutarsi a guadagnare la riva; il primo che incontrai, aggrappato a una sartia sul lato sommerso dell’imbarcazione, fu il mio vecchio amico Edoardo Mutru, e gli passai un boccaporto, raccomandandogli di non farselo sfuggire per nessuna ragione.
Luigi Carniglia, il valoroso nostromo che era al timone al momento della catastrofe, era rimasto aggrappato al bordo, verso i giardini di sinistra, cioè sul fianco non coperto dal mare; per cattiva sorte un giaccone di calmouk, tutto imbevuto d’acqua, lo appesantiva pericolosamente, ma non riusciva liberarsene perché aveva le mani impegnate a reggersi, per non essere portato via dalle onde. Mi fece un gesto e corsi in aiuto dell’amico del cuore: in una tasca dei pantaloni avevo un piccolo coltello dal manico bianco e lo presi cominciando a tagliare con tutta la forza di cui ero capace il colletto di velluto del giaccone; avevo quasi finito quando un maroso, con un fracasso orrendo, travolse il bastimento e tutti quelli che vi erano aggrappati.
Fui scaraventato sott’acqua come un proiettile e quando riemersi, stordito dal colpo e dalle onde che mi soffocavano, il mio sfortunato amico era scomparso per sempre.
Alcuni dei compagni risultavano dispersi e gli altri cercavano a tutti i costi di raggiungere la riva: ed anch’io dovetti fare lo stesso, per salvare la pelle. Nuotavo da quand’ero bambino, quindi arrivai a terra fra i primi, e appena posai i piedi sul solido la mia prima preoccupazione fu quella di girarmi indietro per vedere cosa succedeva ai miei compagni. Edoardo comparì non lontano: aveva mollato il boccaporto che gli avevo dato, o, più probabilmente, la violenza del mare gliel’aveva strappato di mano; nuotava, sì, ma con una fatica enorme, che rivelava lo stato di sfinimento in cui era ridotto! Lo amavo come un fratello e la sua situazione disperata mi angosciava: forse allora ero più sensibile e generoso, poi gli anni e i malanni induriscono il cuore!
Mi slanciai verso l’amico per passargli il pezzo di legno che mi aveva tenuto a galla: gli ero già arrivato vicino e, spronato dalla gravità del momento, ero certo che l’avrei salvato! Che fortuna sarebbe stata per me! Una fortuna troppo grande! Un’ondata ci sommerse entrambi; un attimo dopo riemersi, e chiamai, chiamai disperatamente non vedendolo ricomparire, ma invano. L’amico era stato travolto dall’Oceano, che egli non aveva esitato ad attraversare per servire la causa della libertà.
Altri sedici compagni seguirono la sua sorte e furono ingoiati dal mare. I cadaveri furono trasportati dalle correnti a trenta miglia di distanza, verso nord, e là furono seppelliti, sulla riva. Fra costoro c’erano sei dei sette italiani, solo io mi ero salvato. Luigi Carniglia, Edoardo Mutru, Luigi Staderini, Giovanni D. ed altri due di cui non ricordo il nome: tutti giovani, forti e coraggiosi.
I superstiti, quattordici in tutto, uno dopo l’altro avevano raggiunto la riva, e inutilmente cercai fra loro un italiano. Tutti morti! Mi sembrava di essere rimasto solo al mondo! Deliravo, la mia vita, salvata con tanto sforzo, mi pareva insopportabile. [...]
Camminammo, camminammo come macchine lungo la costa, verso sud, incoraggiandoci a vicenda. La fascia costiera ci riparava dalla furia del vento e verso l’interno scorreva l’Areringuà, un fiume di poca importanza che per un lungo tratto scorreva in direzione nord, parallelo al litorale, per sfociare poi nell’Oceano a breve distanza: seguimmo dunque la sponda destra del fiume e dopo quattro miglia trovammo una casa, dove ricevemmo completa ospitalità. [...] Per i naufraghi fu una meravigliosa sorpresa!

[...]

INNAMORATO

Il generale Canabarro mi ordinò di uscire dalla laguna con tre legni armati, per attaccare le truppe imperiali sulle coste del Brasile, e quindi mi preparai per la missione approntando tutto quanto era necessario.
Fu allora che avvenne uno dei fatti decisivi della mia vita.
Non avevo mai pensato al matrimonio, al quale non mi ritenevo adatto, visto il mio carattere troppo indipendente ed il mio spirito d’avventura. Avere una moglie, dei figli, mi pareva del tutto fuori luogo per chi si era dedicato interamente a una causa sicuramente degnissima ma che, per essere servita con la dedizione di cui mi sentivo capace, non mi avrebbe certo consentito la quiete e la stabilità necessarie a un padre di famiglia.
Ma il destino volle diversamente.
Con la perdita di Luigi, Edoardo e gli altri, ero rimasto tremendamente solo. Non c’era più nessuno di quei tanti amici che erano un po’ la mia patria in quei lontani paesi. Non c’era alcuna familiarità coi nuovi compagni, che conoscevo appena; niente amici, dei quali ho sempre sentito il bisogno. La situazione, poi, era cambiata in modo così orribile e inaspettato che ne ero rimasto sconvolto.
Rossetti, l’unico che avrebbe potuto colmare quel vuoto, era lontano, impegnato nel governo del nuovo Stato repubblicano, quindi mi era impossibile godere della sua fraterna compagnia. Avevo bisogno di un essere umano che mi amasse, subito!, che mi stesse vicino, altrimenti l’esistenza mi sarebbe stata insopportabile.
Una donna, sì, una donna! L’ho sempre considerata la più perfetta fra le creature, e, checché ne dicano, è molto facile trovare un cuore femminile disposto all’amore.
Passeggiavo sul cassero dell’Itaparica, perso nei miei cupi pensieri: dopo ragionamenti fra i più vari, decisi finalmente di trovare una donna, per uscire da quella mia triste e insopportabile condizione.
Per caso posai lo sguardo verso le case della Barra: così si chiamava una collina piuttosto alta, all’ingresso della Laguna, nella parte meridionale, sulla quale vi erano alcune pittoresche e semplici abitazioni. Là, col cannocchiale che abitualmente tenevo a portata di mano quand’ero sul cassero, vidi una giovane e ordinai che mi portassero a terra, in quella direzione. Appena sbarcato mi diressi dove avrebbe dovuto trovarsi la meta del mio viaggio, ma non trovai nulla; per caso incontrai un abitante del luogo, che avevo conosciuto subito dopo l’arrivo in città, ed egli m’invitò a prendere un caffè a casa sua: entrammo e la prima persona che vidi era proprio la donna che mi aveva spinto a sbarcare. Era Anita. La madre dei miei figli! La compagna della mia vita, nella buona e nella cattiva sorte! La donna il cui coraggio ho così spesso invidiato! Restammo entrambi affascinati, e in silenzio, guardandoci come persone che non si vedono per la prima volta e che cercano sul viso dell’altra qualcosa che aiuti a ricordare.
Finalmente la salutai e le dissi: "Devi essere mia." Parlavo poco il portoghese e pronunciai in italiano queste parole impertinenti. Comunque la mia insolenza fu magnetica: avevo stretto un nodo, pronunciato una sentenza, che solo la morte potevano distruggere! Avevo trovato un tesoro segreto, un tesoro inestimabile!
Se vi fu colpa, fu interamente mia. E vi fu colpa, sì! Due cuori si univano in un amore infinito, e si annientava l’esistenza di un innocente! Ora lei è morta! Io sono infelice e lui è vendicato, sì, vendicato! Capii il male che avevo fatto solo il giorno in cui, sperando ancora che lei fosse viva, mi trovai a stringere il polso di un cadavere, piangendo disperato. Camminai a lungo, e camminai solo!

[...]

L’ASSEDIO DI MONTEVIDEO

Era il 13 febbraio 1843: le fortificazioni della città erano appena state ultimate, restavano da piazzare solo pochi cannoni, quando sulle alture vicine apparve l’avanguardia nemica. Il generale Rivera, alla testa della cavalleria, non aveva forze sufficienti per contrastarlo e quindi, apertosi un varco, si era lanciato verso la campagna, aggirando il fianco sinistro del nemico e piazzandosi dietro di esso. Una manovra del genere può riuscire in un paese in cui ogni uomo è un provetto cavaliere e dove, essendo la carne l’alimento principale, non servono tutti i vettovagliamenti indispensabili nelle guerre europee. Rivera, poi, se non era un gran generale nelle battaglie campali, era un maestro negli stratagemmi tipici della guerriglia, e quel suo spostamento lo metteva di nuovo in condizione di impensierire notevolmente il nemico.
Paz restava al comando delle forze della capitale, forze numerose ma in gran parte composte da reclute inesperte, e non si può che ammirare la bravura del generale nell’essere riuscito a organizzarle e a guidarle in battaglia.
Naturalmente non mancarono codardi e traditori: Vidal aveva rubato la cassa dell’erario ed era fuggito; il capo della polizia era passato al nemico insieme a vari ufficiali ed impiegati; un corpo di mercenari aveva defezionato; e anche singole persone avevano disertato.
Le cose, insomma, non si mettevano molto bene, e non ho mai capito perché Ourives, che pure veniva informato dalle sue spie, non ne abbia approfittato per attaccare subito: si limitò a semplici scaramucce, che servirono soltanto ad agguerrire i nostri inesperti soldati.
Nel frattempo andavano armandosi ed organizzandosi i contingenti stranieri: comunque si sia valutato lo spirito che animava la legione francese e quella italiana, non si può negare che fu l’effetto di uno slancio generoso, mirato a respingere l’invasione della terra che aveva dato loro asilo. Che in seguito al loro interno si siano infiltrati individui spinti da interessi personali è certamente vero, in ogni caso quei corpi armati, se non furono decisivi, valsero almeno a garantire la sicurezza della città. I francesi, più numerosi di noi e più attratti dal prestigio della vita militare, in breve tempo furono in 2600; gli italiani si riunirono circa in 500, e, malgrado sembrino pochi rispetto al totale dei connazionali sparsi in quel paese, non avrei mai immaginato che sarebbero stati così numerosi, considerando quelle che sono le abitudini e la cultura della nostra gente: quel quantitativo in seguito aumentò, ma non oltrepassò mai i 700.
Approfittando dell’aumento delle forze regolari, il generale Paz collocò una linea esterna di difesa, distante dalle mura più o meno un tiro di cannone: da quel momento il sistema difensivo fu permanente ed il nemico non fu più in grado di avvicinarsi alla città. Dovendo io comandare la flottiglia, proposi come comandante della legione italiana un certo Angelo Mancini, di infame memoria.

PRIMI FATTI DELLA LEGIONE ITALIANA

La nostra legione fece la sua prima azione in una sortita e, dato che non ci poteva aspettare granché da reclute alle prime armi, non fece una buona figura: s’ironizzò sul valore degli italiani a Montevideo ed io arrossivo di vergogna. Bisognava rintuzzare quel sarcasmo.

La legione ricevette un altro incarico: doveva partecipare a una spedizione sul Cerro, il forte che domina la città, e dovevo aggregarmi anch’io. Il comando della missione era affidato al generale Bauzà, buon soldato ma molto vecchio: marciavamo avanti e indietro al cospetto del nemico, ma senza risultato; forse era prudente non attaccare il nemico, che magari non era più numeroso di noi, ma sicuramente era più agguerrito. Io, impaziente di metter di nuovo alla prova i miei compatrioti, spronavo il vecchio generale, inutilmente, quando la fortuna ci inviò da Montevideo il generale Pacheco, Ministro della Guerra: fui felice per il suo arrivo, conoscendone il coraggio e lo spirito d’iniziativa.. Andai da lui, e con la familiarità che mi era concessa proposi di cacciare il nemico dai ripari che dominavano le nostre trincee e lo tenevano al sicuro. Non solo il ministro approvò la mia richiesta ma ordinò al generale Bauzà di appoggiare l’iniziativa della legione italiana: feci schierare gli uomini dietro un gruppo di case diroccate e dopo aver ricordato qualcosa in merito all’onore della nostra terra ordinai l’attacco; il nemico, abituato a non temerci, ci aspettò a piè fermo e ci accolse con una terribile scarica di fucileria.

Ma quel giorno la legione italiana doveva vincere: l’aveva giurato e mantenne l’impegno. Molti dei nostri caddero feriti, eppure continuavamo ad avanzare, impavidi, fino a che, arrivati a pochi metri dai nemici, questi si diedero alla fuga, inseguiti dai nostri; anche il centro e l’ala sinistra della legione ebbero successo, e così prendemmo quarantadue prigionieri.

Quell’episodio, anche se marginale, fu importantissimo, perché risollevò il morale delle nostre truppe e abbatté quello del nemico: da allora gli italiani si comportarono ottimamente, suscitando l’ammirazione generale. Il giorno dopo quella prima, piccola vittoria, la legione si schierò sulla piazza della Matrix, la più grande di Montevideo, di fronte a tutta la popolazione, ricevendo le lodi del ministro e gli applausi di tutti. [...]

A quella epoca il mio amico Anzani era a Buenos Aires e su mia richiesta venne a Montevideo: il suo acquisto fu utilissimo, soprattutto per quanto riguarda l’addestramento e la disciplina, dato che aveva combattuto in Grecia e in Spagna ed aveva grande esperienza: non ho mai conosciuto un ufficiale con più coraggio, sangue freddo e preparazione, e con lui al comando ero certo che tutto sarebbe andato bene; oltre a tutto Anzani era di una modestia e di una onestà a tutta prova, così io potei occuparmi della flottiglia.

Egli tuttavia fu molto ostacolato da Mancini e Danus, rispettivamente colonnello e maggiore, entrambi pessimi soggetti, come infatti più tardi dimostrarono: non potevano accettare la superiorità di Anzani, il quale, smentendo le mille dicerie diffuse da quei due, era così ferrato in materia militare ed amministrativa che riuscì ad organizzare il corpo nel modo migliore consentito dalle circostanze.


FLOTTIGLIA, FATTI DI QUESTA

La flottiglia che comandavo non aveva un’importanza decisiva ma non mancava di dare il proprio contributo: piazzata sull’estrema sinistra dell’istmo che univa le due coste, non solo copriva benissimo quella linea ma minacciava il fianco destro del nemico qualora questi avesse voluto attaccare. Inoltre serviva da anello fra due postazioni decisive, il Cerro e l’isola della Libertà, distante da Montevideo circa tre miglia, agevolando le puntate che si facevano continuamente contro i nemici che assediavano il Cerro.

L’Isola era diventata un obiettivo prioritario da parte dei nemici e la squadra di Buenos Aires agli ordini di Brown si preparava ad occuparla: così si decise di prevenirli, occupandola noi, ed io fui incaricato di trasportarvi due pezzi da 18 ed una compagnia di guardie nazionali. Alle dieci di sera avevamo terminato e stavo tornando a Montevideo sul lancione quando accadde uno di quegli episodi che talvolta i romanzieri concepiscono, rimanendo soddisfatti per la loro idea.

Il vento soffiava da sud, agitando parecchio il mare, ed io ero imbarcato su una di quelle lance da carico con la poppa larga, al cui traino c’era il lancione col quale avevamo trasportato i cannoni sull’isola: tra il mare mosso e l’impaccio creato dal lancione, di forma quasi cubica e leggerissimo dato che era vuoto, procedevamo assai lentamente, quando avvistammo la squadra nemica. Anzi, alcuni legni erano vicinissimi, tant’è che da uno di essi qualcuno gridò: "Chi è là?". Intimai a tutti di tacere e di raddoppiare la voga facendo meno rumore possibile, ma mi aspettavo da un momento all’altro una grandine di fucilate: addirittura passammo quasi sotto il bompresso del Belgrano, e invece non accadde nulla.

Il fatto è che il nemico stava andando all’attacco dell’isola e aveva ordinato il silenzio, per non perdere l’effetto sorpresa, e infatti appena arrivati al molo udimmo le scariche di fucileria.

Informai subito i miei superiori e mi precipitai a bordo per preparare i legni e andare sull’isola in soccorso ai nostri, che erano solo una sessantina e neanche ben armati: all’alba coi due piccoli legni, armati coi cannoni sottratti al brigantino naufragato, ci piazzammo tra il Cerro e l’isola, bordeggiando. Non sapevamo se l’isola era caduta, ma ben presto c’informarono che i nostri non solo si erano difesi bene ma avevano inflitto pesanti perdite agli attaccanti.

Ormai era quasi giorno e la squadra nemica riprese l’attacco: lo scontro era impari [...] ma il destino fu favorevole, perché il comandante inglese, il commodoro Purvis, inviò una piccola barca con una di quelle bandiere che fermano le tempeste, quella inglese, e improvvisamente il fuoco cessò. Iniziarono le trattative, il nemico se ne andò e l’isola rimase nostra.

Che magnifico uso della forza se lo si paragona al comportamento di certi generali! Quali che fossero le ragioni del commodoro Purvis, è innegabile che da parte sua vi fu molta generosità verso un popolo sventurato ma coraggioso, e da allora Montevideo seppe di avere in Purvis un amico e un protettore. [...]

Così una causa che pareva ormai persa acquistava qualche speranza. [...]


BRILLANTI BATTAGLIE DELLA LEGIONE ITALIANA

La legione italiana, la cui nascita era stata oggetto di scherno da parte di qualcuno, e soprattutto dei Francesi, stava raggiungendo una fama tale da destare l’invidia delle truppe migliori: non era mai stata battuta pur avendo partecipato agli scontri più duri.

Alle Tres Cruces, al prezzo di considerevoli perdite cacciammo gli ourivisti dalle fortissime posizioni. [...] Al Passo della Boyada), inquadrati in un contingente di settemila uomini comandati dallo stesso generale Paz, fummo impegnati in una serie di combattimenti particolarmente accaniti, [...] e così pure ancora sul Cerro, dove la vittoria fu merito del genio militare del generale Pacheco. [...]


SPEDIZIONE DEL SALTO

Innumerevoli furono le operazioni a cui partecipò la legione italiana durante i primi anni dell’assedio: ebbe numerosi morti e feriti ma in nessuna occasione venne meno al suo dovere, e l’Italia può andarne fiera!

Anche noi, in quell’infelice periodo, avemmo qualche traditore: quel Mancini a cui ho già accennato, Danus, tale Giovanni N., ed alcuni poveri diavoli da loro influenzati, disertarono. Fu una vicenda dolorosa, ma che presto scomparve nel mare di gloria su cui veleggiò la straordinaria legione.

Il generale Rivera fu battuto all’India muerta, ma la difesa della capitale non vacillò: i suoi capi militari, induriti dai continui scontri con gli assedianti, rispetto a quest’ultimi avevano acquisito una superiorità morale che aumentava ogni giorno. Poi arrivò l’intervento anglo-francese, e tutto lasciava presagire un esito favorevole della guerra.

Ogni paese del mondo starebbe meglio se non vi fossero interventi di eserciti stranieri, ma per Montevideo la situazione era diversa: la città era davvero cosmopolita e gli stranieri sono sempre almeno in egual numero rispetto agli indigeni. [...]

Fra le operazioni progettate in comune dal governo della Repubblica e dagli ammiragli dei due paesi alleati, rientrava una spedizione sull’Uruguay, della quale fui incaricato io. Negli ultimi tempi la nostra flottiglia era cresciuta: alcuni legni erano stati presi a nolo, come i primi, altri erano stati sequestrati ai cittadini ostili alla Repubblica, altri ancora predati al nemico, che inviava i mercantili nel Buceo, vicino al quartier generale di Ourives, e in altri porti sotto il suo controllo. La nostra flotta si era inoltre arricchita di due legni della squadra argentina, catturati dagli anglo-francesi e messi a disposizione della Repubblica, quindi la spedizione poteva contare su circa quindici bastimenti, il maggiore dei quali era il Cagancha, brigantino con sedici cannoni, mentre i più piccoli erano due baleniere. Le truppe da sbarco erano formate dalla legione italiana, da circa duecento uomini agli ordini del colonnello Battle, e da un centinaio di cavalieri, con due pezzi da 4.

Si era alla fine del 1845 quando la spedizione partì da Montevideo, dando inizio ad una campagna gloriosa e brillante, ma anche avara di risultati per l’infelice e generosa nazione orientale.

Arrivammo alla Colonia, città posta su di un alto promontorio sulla sponda sinistra del Plata, dove ci attendeva la squadra anglo-francese per espugnare la posizione; sotto la copertura dell’artiglieria navale, peraltro non utilizzata, l’impresa non fu difficile: sbarcato coi miei legionari e coi nazionali, non trovammo resistenza tra le mura, ma all’esterno sì; dopo sbarcarono anche gli alleati, e chiesi la loro assistenza mentre avrei fatto una sortita. A tale scopo arrivò un contingente, che però, quando fummo in campo aperto, inspiegabilmente si ritirò intra muros, lasciandoci di fronte ad un nemico nettamente superiore di numero e costringendoci quindi a ritirarci a nostra volta. [...]

IL MATRERO

Dopo la presa di Colonia proseguimmo oltre, col compito di ristabilire l’autorità della Repubblica sulla sponda sinistra dell’Uruguay.

Nell’isola di Martin Garcia conobbi per la prima volta un matrero: come il gaucho de las Pampas, è l’esempio dell’uomo indipendente, che non vuole vivere in una società corrotta, [...] che non riconosce alcuna autorità, e vive libero in quelle immense pianure. I suoi strumenti sono un buon cavallo, una carabina, una pistola, il laccio e las bolas:

Incontrai molti matreros, che ci furono particolarmente utili, ma il migliore fu il capitan Juan de la Cruz Ledesma, che riuniva in sé il coraggio del matrero e la correttezza del gentiluomo: nero di capelli, occhio d’aquila, di bell’aspetto, un cuore di angelo e di leone. Mi fu compagno intrepido e fedele in tutta la campagna dell’Uruguay, che io considero la più brillante della mia vita. Lui e Josè Mundell, scozzese, rimarranno impressi dentro di me per tutta la vita. [...]

A Colonia rimase il colonnello Battle (oggi presidente della Repubblica) e noi continuammo il viaggio, giungendo al Jaguary, alla confluenza del Rio negro con l’Uruguay.

JAGUARY

Il Rio negro forma varie isole coperte di pascoli e ricche di bestiame, [...] così potemmo procurarci molta carne e far pascolare i cavalli. [...]

Venni a sapere che Juan de la Cruz aveva avuto vari scontri vittoriosi col nemico ma che poi, a causa dell’inferiorità numerica dei suoi, aveva dovuto sciogliere i reparti e quindi era rimasto solo: aveva proseguito a cavallo e successivamente in canoa. [...] Inviai una squadra a cercarlo e dopo alcuni giorni lo trovarono in un’isoletta. Egli, come ho accennato, fu per noi un acquisto prezioso, e da allora avemmo con noi tutti i matreros della zona. [...]

SPEDIZIONE A GUALEGUAYCHÙ. HERVIDERO. ANZANI

[...] Proseguimmo lungo il fiume e gettammo l’ancora nella provincia di Entre-rios, in mano al nemico. Il vicino paese di Gualeguaychù era particolarmente ricco di bestiame e di empori, e quindi decidemmo di farvi una puntata. [...] Sorprendemmo nel sonno il comandante della guarnigione e catturammo i suoi uomini, potendoci così rifornire abbondantemente. [...]

Procedendo verso l’interno arrivammo all’Hervidero, una bellissima estancia, abbandonata ma ancora ben attrezzata e assai fornita di bestiame. [...] Anzani, con duecento uomini della legione italiana, ne prese possesso, mentre io mi recai ad incontrare Josè Mundell: [...] non si era mai occupato di politica, ma quando lo straniero invase la Repubblica egli si unì ai difensori della terra che lo aveva accolto. Il prestigio conquistato lo aveva messo in condizione di poter disporre di alcune centinaia di uomini e il nostro incontro sancì l’alleanza. [...]

 

ARRIVO AL SALTO. VITTORIA DEL TAPEBY

La provincia di Corrientes, dopo la battaglia dell’Arroyo grande, era tornata sotto il controllo di Rosas, ma l’ammirevole resistenza di Montevideo ed altre fortunate circostanze le ridiedero la libertà. I fratelli Madariaga, capi della rivolta di Corrientes, avevano chiamato Paz da Montevideo affinché guidasse l’esercito, ed il vecchio generale aveva convinto il Paraguay ad allearsi, ottenendo l’appoggio di un cospicuo contingente.

Le cose, insomma, andavano a meraviglia, e tra gli scopi della nostra spedizione vi era quello di stabilire comunicazioni regolari con le province interne e di riunire nel dipartimento del Salto gli emigrati orientali che si trovavano a Corrientes e in Brasile.

Dall’Hervidero mandai una ballenera (barca leggera) in missione dal generale Paz, ma fu intercettata dal nemico, cosicché l’equipaggio dovette abbandonare la barca e rifugiarsi nella foresta; ripetei il tentativo tre volte, finché un nostro bravo ufficiale, Giacomo Casella, approfittando di una forte corrente del fiume, riuscì a superare tutti gli ostacoli e ad arrivare a destinazione. Giovandomi del medesimo espediente, arrivai con la flottiglia al Salto, [...] occupammo la città senza trovare opposizione e cominciammo a preparare delle fortificazioni che, come si vedrà, furono assai utili. A quel punto, inevitabilmente, ci trovammo assediati da terra, essendo tutta la campagna orientale in mano al nemico: com’è ovvio, uno dei nostri principali inconvenienti era la mancanza di carne, perché il bestiame era tutto all’interno, ma quella situazione non durò a lungo.

Mundell, con circa centocinquanta uomini, attaccò un reparto che gli sbarrava la strada e si unì a noi, e così da quel momento iniziammo a compiere alcune sortite, recuperando il bestiame che ci serviva: con le cavallerie di Mundell e di Juan de la Cruz fummo in grado di controllare la campagna e un bel giorno andammo a trovare Lavalleja al suo campo. Alcuni disertori mi avevano riferito la sua posizione e l’entità delle sue forze, ed io decisi di attaccarlo; una sera, riuniti duecento cavalieri e cento legionari, ci muovemmo con l’intenzione di sorprendere il nemico prima del giorno: ci guidavano i disertori, ma, dato che non esistevano strade battute, pur essendo pratici dei luoghi sbagliarono percorso e all’alba eravamo a tre miglia dall’obiettivo. Forse non era prudente aggredire un nemico forte almeno quanto noi, trincerato nel proprio accampamento, e che poteva ricevere rinforzi da un momento all’altro, tuttavia tornare indietro non solo sarebbe stato disonorevole, ma avrebbe anche influito negativamente sul morale di quel nuovo contingente e sull’opinione che si era fatta del coraggio italiano. A dire il vero non è che mi trastullai più di tanto col proposito della ritirata e decisi l’attacco senza rallentare la corsa, per sfruttare la sorpresa.

Arrivammo a un’altura su cui il nemico aveva installato una postazione; ritiratisi quei soldati, potei studiare la posizione dell’accampamento, dove si andavano concentrando vari gruppi di cavalleria: si trattava di distaccamenti che durante la notte erano stati inviati in vari punti per spiarci, dato che, malgrado la segretezza usata per ogni nostro spostamento, il nemico aveva avuto sentore dell’incursione. Al campo venivano ammassate anche mandrie di cavalli e di buoi, importantissimi, i primi come riserve per la cavalleria e i secondi come base delle scorte alimentari. Ordinai subito a Mundell, che dirigeva l’avanguardia, di inviare la metà dei suoi plotoni ad impedire queste manovre, e altrettanto fece il nemico per proteggersi. Mundell, con grande perizia, aveva eseguito l’operazione appoggiando lui stesso, col resto delle sue forze, i reparti mandati avanti, ed era riuscito a disperdere i distaccamenti nemici; ma nello slancio della battaglia non aveva considerato la notevole distanza che lo separava dalla nostra fanteria e così si ritrovò in posizione troppo avanzata: era circondato dalla cavalleria avversaria, che, ripresasi dallo sgomento iniziale, lo incalzava a colpi di lancia, rischiando di tagliarlo completamente fuori dal grosso delle nostre forze: queste combattevano a notevole distanza, coi fanti, fortunatamente giovani, che correvano con la lingua di fuori.

Potevo osservare tutto benissimo, dato che il campo era sgombro e noi stavamo scendendo: con tutti i miei soldati volevo arrivare di slancio e portare a segno il colpo di mano decisivo, così da una parte acceleravo la nostra avanzata e dall’altra tenevo la retroguardia di Juan de la Cruz come riserva; ma, rendendomi conto che la situazione di Mundell non tollerava ritardi, lasciai indietro la fanteria, agli ordini del valoroso Marrocchetti, e spinsi in avanti tutte le riserve di cavalleria: il primo scaglione, comandato dal tenente Gallegos, ci diede dentro coraggiosamente e ristabilì in fretta i rapporti di forza; alla carica di Juan de la Cruz il nemico retrocesse, ripiegando verso il campo e schierandosi dietro la fanteria, coperta da una barricata di carri. Avevo dato ordine agli ultimi scaglioni di cavalleria di caricare compatti, senza disperdersi, di modo che con la loro copertura i matreros di Mundell, che si battevano valorosamente, poterono riordinare le proprie fila. A quel punto avanzammo verso il campo in vero ordine di battaglia: la fanteria al centro, compatta ma divisa per reparti, con l’ordine di non sparare un colpo; Mundell a destra, Juan de la Cruz a sinistra, ed infine alcuni plotoni di cavalleria, di riserva.

Come accennato, la cavalleria avversa dopo il primo scontro si era schierata dietro la fanteria, a sua volta protetta dai carri, ma l’andatura impavida dei nostri, il loro procedere compatti e silenziosi, intimorirono talmente il nemico che la resistenza fu scarsissima: in un attimo non ci fu più battaglia, ma la sconfitta totale, ed un fuggi fuggi disordinato verso il fiume Tapebì. [...]

Il nostro ritorno al Salto fu una marcia trionfale: la popolazione, rientrata nelle proprie case, ci benediva, e la vittoria ci diede una meritata reputazione.

ARRIVO DI URQUIZA

L’impresa del Tapebì era stata eseguita con tutta la rapidità consentita da un’operazione bellica, e dopo aver raccolto tutto il possibile fra armi, cavalli, attrezzature, ecc., si riprese subito la direzione del Salto: una prontezza provvidenziale. Il nemico, come ho già detto, aspettava rinforzi, e questo aiuto era nientemeno che l’esercito vittorioso del generale Urquiza, il quale aveva sbaragliato Rivera all’India muerta e ora si dirigeva verso Corrientes. Vergara, la sua avanguardia, arrivò al Salto il giorno dopo il nostro ritorno e ci prese alcuni cavalli che pascolavano nei dintorni.

Presentendo la tempesta che stava per scatenarsi, facemmo ogni sforzo per prepararci: una batteria improvvisata da Anzani nel centro della città prendeva forma sotto l’alacre lavoro di soldati e cittadini; le case ritenute adatte vennero fortificate e ad ogni uomo, soldato, marinaio, cavaliere, venne assegnato il suo posto di combattimento; sbarcammo alcuni cannoni da marina e preparammo gli appositi affusti; inoltre sopraggiunse il colonnello Baez con una sessantina di cavalieri.

Urquiza non tardò ad arrivare, con un esercito tracotante, forte di uomini delle tre armi. Egli aveva promesso ai propri amici che al Salto avrebbe attraversato il fiume Uruguay con le nostre imbarcazioni, ma la predizione non funzionò.

Appena il grosso delle forze fu in vista, partì fulmineo l’attacco nemico. Ad est del Salto, a un tiro di schioppo dalle prime case, vi era una collina che dominava la città, ed ovviamente Urquiza vi collocò sei pezzi di artiglieria e mentre ci bombardava spinse la fanteria, a passo di carica, sulla nostra destra. Quasi contemporaneamente avevamo terminato di sistemare due pezzi della batteria, ma non avevamo fatto in tempo ad allestire piattaforma e parapetto, e i cannoni nel far fuoco sprofondavano nel terrapieno, non ancora consolidato.

In realtà era il nostro fianco destro il più vulnerabile, dato che il nemico poteva arrivargli vicino attraverso una valle riparata: e infatti, non appena apparve all’improvviso, i nostri restarono sgomenti e abbandonando le azoteas (case con terrazzo) fuggirono verso il fiume, con l’intenzione di nascondersi sulle navi; molto opportunamente, però, tutte le imbarcazioni erano state preventivamente allontanate.

Io stavo presso la batteria, al cui interno avevo disposto come riserva una compagnia della legione, e ordinai immediatamente che metà del reparto, agli ordini del prode tenente Zaccarello, contrastasse l’avanzata nemica; subito dopo lanciai all’attacco anche l’altra metà, e le due cariche vennero eseguite con tale bravura che il nemico si diede precipitosamente alla fuga. [...]

Non essendoci stato uno scontro generale su tutta la linea, le perdite furono contenute da entrambe le parti. Viceversa noi perdemmo la maggior parte dei bovini: si trovavano in un corral (recinto) e quando qualche nemico aprì il cancello e si riversarono all’esterno come un torrente impetuoso, disperdendosi per la campagna.

Urquiza proseguì nei suoi tentativi per tre giorni ed ogni volta ci trovò preparati, dato che anche di notte non perdevamo occasione per ultimare i lavori alla batteria, alzare barricate e riparare i danni: collocammo altri cinque cannoni, finimmo la piattaforma, il parapetto e la santabarbara. Quindi, avendo concluso che non avrebbe ottenuto nulla con gli attacchi, Urquiza adottò il sistema dell’assedio e ci bloccò ermeticamente dalla parte di terra: ma anche in quel modo fu un fallimento, perché noi, controllando il fiume, potevamo rifornirci per quella via.

L’assedio durò diciotto giorni, ma non rimanemmo in ozio: dovendo rifornirci di fieno, si veniva alle mani col nemico quotidianamente; poi, dato che per circondarci gli assedianti avevano dovuto sistemare tutt’intorno alla città una serie di postazioni, le assalivamo di sorpresa, spesso con una buona riuscita. Alla fine, o perché si era stancato o perché era stato chiamato altrove per operazioni più urgenti, Urquiza se ne andò e attraversò il fiume: ma non con i nostri legni, come aveva promesso.

ASSEDIO DEL SALTO DA PARTE DI LAMAS A VERGARA

Rimasero a tenere l’assedio le due divisioni di Lamas e Vergara, con circa settecento uomini. [...] e un corpo di cavalleria: il colonnello Baez mi propose d’impadronirmi di questi animali e così preparammo una ventina di cavalieri scelti, armati solo di sciabola, ed una compagnia di legionari. Era un pomeriggio caldo e le sentinelle nemiche stavano sonnecchiando o giocando a carte al di là del fiume, in quel punto largo circa cinquecento metri. Al segnale convenuto i cavalieri escono dalle frasche dietro cui si erano nascosti e si precipitano, cavalcando senza sella, al guado, mentre i legionari si avvicinano con le barche e prendono a fucilate il nemico. [...] In poche ore c’impadroniamo di un centinaio di ottimi cavalli, senza contare nessun ferito.. [...]

S. ANTONIO

In quel periodo fummo informati che il generale Medina, nominato capo supremo delle forze armate al posto di Rivera, voleva riunirsi con noi insieme ad alcuni emigrati orientali nel Corrientes e in Brasile, [...] così all’alba dell’8 febbraio 1846 uscimmo dal Salto dirigendoci verso il fiumicello S. Antonio, sulla sponda sinistra del quale dovevamo attendere Medina ed il suo seguito. Anzani, per nostra fortuna, restò al Salto, leggermente indisposto.

Com’era solito fare quando uscivamo da quella parte, il nemico mandò sulle alture alcuni reparti di cavalleria per vedere se raccoglievamo bestiame e per disturbarci; il colonnello Baez inviò contro di loro un reparto di tiratori di cavalleria e per alcune ore ci si scambiò colpi di fucileria. Intanto, vicino al fiume, su un’altura chiamata tapera de Don Venancio, la fanteria si era fermata e aveva sistemato i fucili a terra, appoggiati gli uni agli altri, verso l’alto, formando dei fasci; io osservavo la guerriglia: era un divertimento assistere a quello spettacolo di perizia e di abilità. Ma il nemico in questo modo nascondeva il suo vero scopo, e la noncuranza con cui guerrigliava serviva per ingannarci meglio e dar tempo al grosso delle forze di avvicinarsi. [...] In tutto il dipartimento del Salto il terreno è cosparso di colline, così l’imponente forza che marciava contro di noi, formata dalla cavalleria di Lamas e Vergara, poté avanzare al coperto, fino a breve distanza. All’improvviso, in cima a una collina dove fino a poco prima c’erano solo pochi nemici, vedo con stupore una foresta di lance, fitti squadroni con le bandiere spiegate, e un contingente di fanteria che era il doppio del nostro: i fanti, giunti a cavallo, smontarono, si misero in formazione, e a passo di carica, ritmato dal tamburo, si lanciarono su di noi alla baionetta.

Baez, sconvolto, mi disse: "Ritiriamoci". "Non c’è più tempo, dobbiamo combattere" risposi. Mi rivolsi ai legionari e per smorzare l’effetto che poteva avere su di loro la comparsa di un nemico così formidabile gridai:" Combatteremo contro la cavalleria, siamo abituati a vincerla. E oggi ce la vedremo anche con la fanteria." [...]

Avevamo solo una via di scampo: dovevamo respingere la fanteria avversaria, ne ero convinto, e su tale obiettivo concentrai tutti i nostri sforzi. Se quei fanti, invece di avanzare in linea di battaglia, formando una larga linea, avessero caricato in colonna d’attacco, con davanti una linea di tiratori, il loro assalto sarebbe stato irresistibile; ci saremmo battuti corpo a corpo, il nemico non ci avrebbe dato quartiere, e alla fine la cavalleria ci avrebbe massacrati: i campi di S. Antonio ancora oggi sarebbero bianchi delle ossa italiane e la nostra patria avrebbe pianto la strage di un pugno di suoi valorosi figli senza che nessuno di essi potesse raccontarlo.

La fanteria nemica, invece, avanzò arrogante, caricando su una sola linea, senza sparare, e solo a pochi metri si arrestò e fece partire una scarica di fucileria. Fu la nostra salvezza!

I legionari avevano ordine di aspettare che il nemico fosse vicinissimo e di sparare a bruciapelo, e così fecero: molti dei nostri rimasero sul terreno, ma pochi tiri della nostra scarica andarono perduti. [...] Con l’annientamento della fanteria nemica cominciai a sperare: ci riorganizzammo approfittando del momento di calma che ci lasciava lo sbigottimento del nemico, convinto che ci avrebbe annientato e invece rimasto deluso. Tra i cadaveri nemici rimasti in mezzo a noi e soprattutto lungo la linea di fuoco trovammo un’abbondante provvista di cartucce e molti fucili, migliori dei nostri, lasciati dai morti, servirono ad armare i nostri che ne erano privi.

Il nemico, avendo fallito il primo tentativo, replicò più volte le sue cariche; fece smontare molti dei suoi dragoni e con quelli, coi resti della fanteria, e con tanta cavalleria da far tremare il terreno, ci assaliva cercando a tutti i costi di farci arretrare, ma senza risultato: i nostri sentivano troppo il sacro dovere di combattere per il proprio onore e si erano convinti che con coraggio e sangue freddo si può combattere anche senza badare al numero degli avversari. Nella misura in cui ci attaccavano io tenevo sempre pronti alcuni legionari scelti ed i pochi cavalieri che ci rimanevano, per lanciarli a mia volta alla carica. Varie volte tentarono pure di far avvicinare un soldato con la bandiera bianca, naturalmente per intimarci la resa, allora sceglievo i nostri migliori tiratori e facevo sparare per mettere in fuga il messo. Si andò avanti così fino alle nove di sera, con noi che dopo otto ore di battaglia eravamo in mezzo a un mare di cadaveri, e verso quell’ora cominciammo i preparativi per la ritirata: i feriti erano molti, la maggioranza, anche fra gli ufficiali. [...] Eppure fu una bella ritirata: un pugno di uomini, in colonna serrata, tra una densa nuvola di polvere sollevata dai migliori cavalieri del mondo; l’ordine era di sparare solo a bruciapelo fino a che non avessimo raggiunto il limitare del bosco che lambisce la sponda dell’Uruguay; sicuro che le cariche si sarebbero rivolte verso i fianchi e la retroguardia, avevo dato ordine che l’avanguardia raccogliesse i feriti, che soffrivano molto: un paio non ce la fecero ma gli altri furono salvi. [...]

Il positivo risultato della prima fase di ripiegamento fece sì che in seguito venissimo disturbati poco: fino a che non si arrivò in città formammo una linea di bersaglieri per coprire il fianco sinistro, sempre minacciato, e così costeggiammo il fiume; quando il nemico caricava, e lo fece più volte per la rabbia di vedersi sfuggire una preda sicura, ci fermavamo, ci facevamo coraggio fra di noi e pieni di orgoglio gridavamo agli assalitori "Ah che no!" (cioè: perché non vi fate avanti?), e mettendoli in fuga a fucilate li schernivamo.

Anzani ci aspettava all’ingresso della città e volle abbracciarci tutti, commosso fino alle lacrime: il modesto e impareggiabile soldato non aveva disperato, me lo garantiva egli stesso, ma la lotta era stata davvero ardua e il numero dei nemici era spropositato: lui aveva riunito nella fortezza i pochi rimasti, la maggior parte dei quali feriti in convalescenza, ed aveva risposto alle intimazioni di resa come Pietro Micca a Torino, e come Pietro Micca avrebbe fatto saltare in aria il mondo piuttosto che arrendersi! [...]

Il 9 febbraio fu impegnato totalmente alla cura dei feriti, nostri o nemici, ed i giorni seguenti nella raccolta e nella sepoltura dei morti. [...] Tanto fu straordinaria la battaglia, altrettanto solenne mi sembrò dovesse essere la cerimonia funebre: mi ricordai di aver visto in Oriente i tumuli dei campi di battaglia e sulla collina del Salto, già teatro di scontri durissimi, feci scavare una fossa per tutti, indistintamente, poi una cesta di terra coprì ciascun caduto, amico o nemico, e venne quindi alzato il tumulo che si può scorgere ancora oggi, sormontato da una croce e sul cui lato si legge: "Legione Italiana, Marina, e Cavalleria orientale" e dall’altro: "8 febbraio 1846". I nomi degli eroi, morti o feriti, sono scritti sul giornale della legione tenuto da Anzani.

Il generale Medina poté liberamente entrare nel Salto con i suoi. [...]

RIVOLUZIONE A MONTEVIDEO E CORRIENTES. COMBATTIMENTO DEL DAYMAN

La ribellione a Montevideo a favore di Rivera diede un colpo tremendo alla Repubblica: il conflitto cessò di essere nazionale e divenne lotta meschina tra fazioni capitanate da gente qualsiasi, generalmente senza alcun merito, anche perché un uomo di valore non trascina il proprio paese in guerre civili, le più lunghe e sanguinose.

Circa nello stesso periodo, a Corrientes vi fu la rivolta dei fratelli Madariaga contro il bravo e venerando generale Paz: quei giovani capi, diventati famosi per aver compiuto imprese notevoli strappando la loro patria al dominio di Rosas, per gelosia ed ambizione si macchiarono della più infame congiura e compromisero così la causa del loro paese. Il generale Paz fu costretto a dimettersi e a partire per il Brasile, dopodiché il Paraguay, che confidava proprio in Paz, ritirò il proprio contingente: i Madariaga, fortemente indeboliti, furono battuti da Urquiza e Corrientes tornò nelle mani del feroce dittatore di Buenos Aires.

A Montevideo le cose non andavano meglio: Rivera, una volta arrivato al potere, ne allontanò chiunque non parteggiasse per lui e mandò in esilio la maggior parte di coloro che con disinteresse si erano battuti per la patria; funzionari capaci ed onesti venivano sostituiti da inetti devoti a Rivera. [...]

Tutto questo mi addolorò, facendomi prevedere imminenti sciagure.

Il vecchio generale Medina, già capo supremo dell’esercito, non solo si piegò agli eventi ma, per entrare ancor di più nelle grazie del nuovo padrone, tramava contro di me (che in fondo contavo abbastanza poco), forse per le nostre fortunate imprese, e preparava una congiura al nostro stesso interno, per far fuori tutti i gringos (gli italiani). Eppure non ci riuscì. Italiani e uruguayani, lo dico con orgoglio, mi amavano, ed avrei potuto senza difficoltà dichiararmi indipendente dal nuovo, e illegale, potere, ma mi era troppo cara la causa di quel popolo sfortunato, però buono e generoso, perché lo affliggessi con altri dissidi interni. A Montevideo per portare Rivera al potere si erano insanguinate le piazze, e al Salto s’ideò la stessa farsa, ma inutilmente: per rappresaglia mi accontentai di assumere il comando delle truppe.

Proprio allora vi fu la battaglia contro Lamas e Vergara, i nostri perenni assalitori. Il 20 maggio 1846 li sorprendemmo, con la solita incursione notturna, sulla sponda del Dayman, un affluente dell’Uruguay: il loro esercito, dopo aver combattuto a S. Antonio sotto Servando Gomez, si era rimpinguato di uomini e cavalli, e aveva ripreso le vecchie posizioni, vicino al Salto, spostando gli accampamenti ma mantenendoli sempre a poca distanza dalla fanteria, la sola che poteva impensierire, dato che la cavalleria era esigua e poco efficiente. Io feci spiare le loro posizioni ed il 19 ci mettemmo in marcia: avevo una cavalleria di circa trecento uomini e altri cento legionari (il battaglione sacro: poveri giovani, erano stati decimati!), ed il mio obiettivo era di sorprendere l’accampamento all’alba. Stavolta ci riuscimmo perfettamente.

Il mio baqueano era un capitano, Paolo, un nativo americano, cioè di quella razza infelice padrona del Nuovo Mondo prima dell’invasione dei predoni europei, gente che conserva sempre una conoscenza tutta particolare della propria terra. La fanteria si mosse a cavallo e nella notte percorremmo più di venti miglia: prima dell’alba avvistammo i fuochi del campo nemico, sulla sponda destra del Dayman, e appena la fanteria smontò si attaccò risolutamente in colonna, senza sparare.

La vittoria fu facilissima e i soldati di Vergara furono cacciati in acqua, lasciando armi, cavalli e prigionieri; ma l’impresa era ben lungi dall’essere terminata, e me ne accorsi con la luce del giorno. Dopo aver radunato tutti i cavalli andammo all’inseguimento, ma invano: i nostri avevano catturato, e montato, dei rodomons, cavalli irrequieti perché appena domati, mentre i nemici avevano cavalcature migliori, ed erano anche più numerosi; non me la sentivo di arrischiare la mia giovane cavalleria senza l’appoggio della legione, così lasciammo perdere l’inseguimento, accontentandoci del successo, e ritornammo al Salto.

Ma quel giorno la fortuna era decisamente dalla nostra. Eravamo a circa due miglia dal Dayman, in mezzo a colline dolcissime, verdeggianti d’erba, ed il paesaggio era ondulato come l’Oceano, in tutta la sua pacifica imponenza, quando non era sconvolto dalle tempeste: non c’era una sola pianta a impedire la visuale di quei bellissimi campi, e poteva essere il luogo ideale per un banchetto. Lo fu, invece, per la morte. Arrivati ad un ruscello dove la vegetazione era alta come un uomo, preferii non attraversarlo, perché sarebbe stato inevitabile passare uno per volta, disgregando la colonna, e anche perché una collina copriva il nemico, o meglio faceva intravedere sulla sua sommità alcuni cavalleggeri. Immaginai che avrebbero potuto attaccarci proprio in quel punto e diedi l’alt: ordinai ai maggiori Carvallo e Fausto, ottimi ufficiali, di contrastare la cavalleria nemica, respingerla oltre la collina ed informarmi sui suoi movimenti; portato questo attacco e ricacciato il nemico al di là dell’altura, i nostri si fermarono ed un uomo venne al galoppo per avvisarmi che il nemico convergeva a sinistra e avanzava su di noi con tutte le sue forze, al trotto ed in ordine di battaglia.

Non c’era tempo da perdere: ordinai ai plotoni di cavalleria, sulle ali, di convergere a destra, e alla fanteria di fare altrettanto, e marciammo sul nemico; per sfruttare lo slancio stabilii di caricare frontalmente, ma l’impatto fu sostenuto dalla sola cavalleria e la nostra, inferiore per numero e per qualità degli animali, ebbe la peggio; per un pezzo la fanteria rimase isolata e inutilizzabile, ma in seguito, ora immobile e compatta come un fortino, ora rapida nell’accorrere dov’era necessario, fu utilissima come copertura per i nostri cavalleggeri i quali, anche se venivano respinti, si ricompattavano dietro di noi e ripartivano all’attacco come leoni; una piccola riserva di cavalleria, rimasta a difendere gli animali di scorta, servì a dare un ulteriore appoggio alla riorganizzazione dei nostri plotoni allo sbando.

Ci furono varie cariche da ambo le parti, con alterne fortune: era tutto un ondeggiare di reparti, ora coesi ora smembrati, e non saprei dire da che parte vi era maggior coraggio. La già accennata superiorità della cavalleria nemica le consentiva di ricacciare la nostra verso la fanteria e di caricare arrivando addirittura a scontrare le lance con le baionette; i nostri, appoggiati dai fanti, rintuzzavano gli assalti combattendo corpo a corpo. Com’erano belli i giovani italiani quel giorno! Compatti come un baluardo, ma agilissimi, accorrevano ovunque ce n’era bisogno e naturalmente dove la mischia era più furiosa, mettendo sempre in fuga quelli che si accanivano contro la nostra cavalleria: tiravano poche fucilate, ma ben mirate e a colpo sicuro, disperdendo il nemico.

A forza di cariche forsennate la cavalleria avversaria era ormai totalmente priva di ordine, una massa informe, mentre invece i nostri riuscivano agevolmente a ricomporsi: dopo circa mezzora, quando non avevano più di fronte truppe ben ordinate, i nostri plotoni, ben compatti, si lanciarono in una carica decisiva : il nemico arretrò, si sbandò del tutto, prese a fuggire, e una nuvola di bolas solcò l’aria, creando un curioso spettacolo, ammesso che una battaglia sanguinosa possa essere oggetto di curiosità.

[...] Fu un trionfo ed inseguimmo per diverse miglia il nemico in rotta: la vittoria, in realtà, avrebbe potuto essere ancora più consistente se avessimo avuto cavalcature migliori, tant’è che molti di loro riuscirono a fuggire; comunque, per tutto il periodo che rimanemmo al Salto, avemmo la soddisfazione di non vedere più un nemico in tutto il dipartimento.

ALCUNI MORTI E FERITI DELLA LEGIONE

Nel giornale della Legione, tenuto da Anzani, sono trascritti i nomi dei morti, dei feriti, e di coloro i quali si sono distinti particolarmente. [...]

 

RITORNO A MONTEVIDEO

Dopo il combattimento di quel 20 maggio a Dayman non accadde più nulla d’importante nella nostra campagna dell’Uruguay. Ricevetti l’ordine dal governo di ritornare a Montevideo con la flottiglia ed i legionari, nel Salto restarono alcune imbarcazioni minori e la piazza rimase al comando di Artigas, un bravo ufficiale distintosi negli scontri del 20 maggio. Dopo pochi giorni dalla mia partenza, arrivò al Salto il colonnello Blanco e per ordine di Rivera assunse il comando.

Dopo gli incidenti di Montevideo e Corrientes la causa di Rosas ebbe un potente impulso mentre quella delle genti della Plata precipitava: Corrientes ebbe il suo esercito annientato da Urquiza e quel povero popolo, dopo aver nuotato in un mare di sangue, languiva sotto il dispotismo più esecrato. Rivera non imparò la lezione e completò l’opera allontanando definitivamente i funzionari onesti e rimpiazzandoli con i propri tirapiedi; smantellando un esercito creato e tenuto in vita dal coraggio e dalla tenacia del popolo; terminando col sacrificio delle truppe rimaste. Alla fine lo sdegno e la condanna popolare lo costrinsero all’esilio.

Sia questo il destino, e lo sarà, di tutti coloro che considerano le nazioni come una proprietà creata solo per soddisfare l’infame bisogno di ricchezze e potere che domina quella miserabile classe di uomini chiamati Monarchi, ma anche certi Presidenti della Repubblica, peggiori dei re.

Gli anglo-francesi, delusi dalle nostre sconfitte e amareggiati per le lotte fratricide, ci abbandonavano: l’Inghilterra del tutto, la Francia solo in parte, trattenuta dalle responsabilità derivanti dalla morte di molti suoi cittadini, più che dal desiderio di difendere una causa ormai compromessa.

Le nostre posizioni cadevano una ad una in mano al nemico: il Salto, così gloriosamente conquistato e difeso, subiva l’assedio di Servando Gomez, e in esso morirono il colonnello Blanco, vecchio ed eroico soldato, e numerosi difensori, tra cui quel tenente Gallegos di cui ho già accennato, bravo ma sanguinario, tant’è che appena fatto prigioniero fu massacrato. In definitiva la resistenza si riduceva solo a Montevideo, ultimo baluardo del generoso popolo orientale: a Montevideo si ritrovarono tutti gli uomini affratellati da sei anni di difficoltà, di pericoli, di glorie, di sconfitte! E impavidi riprendevano a ricostruire un edificio che la malvagità aveva distrutto fino quasi alle fondamenta. [...]

Orientali, francesi, italiani, sotto la spinta popolare, ricominciavano con l’antica passione ad accorrere in difesa della patria comune, dato che come una patria consideravamo quella città che generosamente ci aveva dato asilo. Nessuno pronunciò una parola di scoraggiamento: l’assedio di Montevideo, quando sarà conosciuto in tutti i suoi particolari, conterà non poco: per la bella difesa sostenuta da un popolo in lotta per la libertà, per il coraggio e la tenacia, per i sacrifici di ogni genere; è la dimostrazione della forza di una nazione che non vuole piegare la testa davanti alle prepotenze di un tiranno, e qualunque sarà il destino di questa città, essa merita il plauso e l’ammirazione del mondo.

In quell’ultimo periodo prima della partenza per l’Italia non ci furono grandi successi: la Legione italiana, giustamente apprezzata per le sue magnifiche imprese, aveva ripreso il consueto servizio negli avamposti, alternandosi con altri corpi; la comandava Anzani, e benché non ci siano state battaglie importanti ad ogni scontro dimostrò di essere degna della sua fama. Io mi occupavo prevalentemente della marina, dirigendo il ripristino delle navi maggiormente danneggiate ed incrociando nel Plata con la goletta Maipù. Fu allora che ebbi l’onore di essere nominato comandante dell’esercito repubblicano, e durante il mio comando, che poi lasciai al vecchio e prode Villagram, non accadde nulla di significativo.

L’intervento del governo francese si riduceva ogni giorno di più: per risolvere la situazione non intendeva più usare mezzi militari, ma diplomatici, e Rosas ne approfittava. [...]

In quei giorni (credo proprio all’inizio del 1848), arrivò fino a noi la notizia che Pio IX aveva concesso alcune riforme: tutte le informazioni che ci giungevano indicavano chiaramente quanto ormai fosse incontenibile l’insofferenza delle popolazioni italiane nei confronti del dominio straniero e da tempo i nostri cuori palpitavano all’idea del ritorno in patria, con la speranza di poter offrire le nostra braccia per la sua redenzione.

Era doloroso abbandonare il paese d’asilo, la patria adottiva, i fratelli e i compagni d’arme, ma la questione di Montevideo era ormai diventata un problema diplomatico, e per noi non restavano altro che malinconia ed umiliazioni, se non peggio: del resto era comprensibile, avendo a che fare coi francesi, sempre a noi ostili.

Fu così che decidemmo di riunire un pugno dei nostri uomini migliori, di trovare una nave e di veleggiare verso l’Italia.