Garibaldini in Friuli

Giorgio Madinelli

IN CARNIA CON GARIBALDI

Escursioni in Sernio – Grauzaria sulle orme degli insorti friulani del 1864

Ediciclo ed., 2007

PREFAZIONE STORICA

Giorgio Madinelli inizia il suo libro facendo riferimento ai rapporti di polizia e qualcuno potrebbe rimanere perplesso di fronte a questa scelta: che, invece, si rivela acuta ed efficace.
Non è un paradosso né tanto meno una soluzione di ripiego attingere informazioni proprio nelle sedi che istituzionalmente lavoravano per reprimere le lotte patriottiche e di liberazione, perché generalmente i verbali di polizia - ancorché intollerabili per il loro linguaggio burocratico e la sintassi approssimativa - sono più aderenti alla realtà di quanto lo possano essere i proclami ideologici e gli scritti di propaganda, dell’una e dell’altra parte in conflitto. Talvolta il solerte questurino scrive ciò che il suo dirigente vuole leggere, ma tale consuetudine appartiene più alla mentalità totalizzante dell’Inquisizione cattolica che a quella pragmatica di una polizia moderna: e di ciò fu ben consapevole lo zar Nicola I, il quale si occupò personalmente di dar vita alla Terza sezione della cancelleria privata di Sua Maestà, un corpo investigativo strutturato e altamente professionale che fu preso come modello dai governi più attenti alle dinamiche politiche. E che si tratti dell’Opera Vigilanza Repressione Antifascismo, del Komitet Gosudarstvennoy Bezopasnosti, o del Federal Bureau of Investigation, questi organismi purtroppo si rivelarono di regola assai più efficienti dei propri oppositori.
Sì, nelle relazioni poliziesche troviamo - seppur filtrati dagli odiosi obiettivi repressivi - scorci del mondo reale decisamente più plausibili di tante fantasie retoriche risorgimentali.
Le testimonianze che Madinelli ricostruisce - l’oste preoccupato che le camicie rosse gli rubino gli incassi, la fanciulla intimorita ma curiosa, i garibaldini arrestati che negano pateticamente l’evidenza, l’interrogato che si rifiuta di fare la spia, e tanti altri - sono appunto quanto di più lontano possa esserci dalla visione eroica e magniloquente che per decenni ci è stata propinata a proposito del nostro tumultuoso divenire Italia.

Antonio Gramsci fu uno dei pochi che si applicò ad analizzare senza orpelli e caricature il processo unitario, e a proposito della “liberazione” del Sud ebbe a scrivere sull’Ordine Nuovo (1920): “Lo stato sabaudo è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti.”
Già gli ex garibaldini diventati uomini di potere (più o meno reazionari), Crispi e Depretis primi fra tutti, avevano imbalsamato Garibaldi; il fascismo, poi, s’incaricò di completare la disinformazione, da un lato avvolgendo contraddizioni, insuccessi, lotte intestine, in un’aura mistica e graniticamente tricolore, dall’altro inventando (genialmente, peraltro) il proprio essere in naturale continuità politico-ideologica col Risorgimento. 
E dunque Garibaldi irruente e un po’ scavezzacollo, ma di genuina stirpe italica. E i suoi seguaci idealisti, di sentimenti nobilissimi, esempio per le generazioni a venire. Ma, soprattutto, gli Italiani, tutti come li canta Mameli.
Una retorica che dura tuttora, negli scemeggiati [nota tipografica: non sceneggiati, ma proprio scemeggiati] televisivi e nella pubblicistica corrente, quasi che il Risorgimento fosse stato quell’imponente e maggioritario moto di popolo che non fu mai.

“Anche nella nostra terra, salvo per poche famiglie carniche per lo più in vista per nobiltà di origine o per censo e per istruzione, questo movimento di riscossa non fu sentito né seguito dai nostri contadini e montanari allora intesi unicamente a risolvere l’elementare problema giornaliero della sopravvivenza. I Micoli Toscano, i Lupieri, i Cleva e pochi altri nomi illustri - la cosiddetta illuminata borghesia laica - costituirono un’eccezione e portarono tra noi la fiamma di uno spirito nuovo.” (Osvaldo Fabian, Affinché resti memoria. Autobiografia di un proletario carnico, Kappa Vu, 1999, p. 13)
Ecco il limite profondo del nostro processo unitario: una rivoluzione dall’alto che tuttavia non ebbe una direzione omogenea e non modificò strutturalmente un paese arretrato, diviso, inconsapevole.

Nel disegnare la fisionomia politica dei dirigenti friulani del movimento antiaustriaco Madinelli ben ricorda i contrasti fra moderati e progressisti, anche in riferimento alle differenti ipotesi strategiche di Vittorio Emanuele, Garibaldi e Mazzini, e non occorre rammentare quanto in precedenza divergessero le idee e le azioni del conte di Cavour e di Garibaldi; tuttavia forse è bene sottolineare che anche l’idea di un fronte repubblicano unito è molto distante dal vero: la visione mistica che Mazzini aveva dei protagonisti del cambiamento ed il suo idealismo radicale (per capirci: Dio e Popolo) erano agli antipodi della visione concreta - ma non semplicistica - che Garibaldi aveva del cammino che avrebbe portato all’Unità; e non è certo irrilevante l’abisso fra il rarefatto cristianesimo mazziniano ed il furore anticlericale del nizzardo (“Senza la satanica razza dei preti l’Italia sarebbe una potenza di prim’ordine”). Ma questo dissidio fra i due, profondissimo e mai sopito, nella storia “ufficiale” scompare, quasi che i due padri dell’Italia fossero, teo/logica/mente,  un’anima sola.
Che poi Garibaldi fosse a tutti gli effetti un socialista rivoluzionario (non a caso il Comitato Centrale della Comune di Parigi gli propose di assumere il comando militare dell’insurrezione) rimane un aspetto politicamente molto imbarazzante, non solo, come si è accennato, per i suoi ex seguaci entrati nei più torbidi meccanismi del potere, e in seguito per il regime fascista, ma anche per l’Italia repubblicana, che continuerà a dipingerlo secondo gli stereotipi grossolani e retorici degli anni precedenti.
Non è dunque così strano che sia stato uno storico inglese, Denis Mack Smith, uno dei pochi (di Gramsci si è già detto) a incrinare consapevolmente questa visione rassicurante, buonista, del Generale.
Anche se, in realtà, un richiamo forte, non conformista, al “vero” Garibaldi lo si è avuto in un altro momento cruciale della storia italiana, quando si trattava di combattere i nazifascisti. Già durante la Guerra di Spagna comunisti e socialisti avevano scelto di chiamare “Garibaldi” le proprie formazioni, e quando alla fine di agosto del 1943 si andò prospettando “la necessità urgente di organizzare la difesa nazionale contro l’occupazione e la minaccia di colpi di mano da parte dei tedeschi”  la Direzione del PCI presentò al Comitato delle opposizioni un Promemoria in cui fra l’altro si riteneva indispensabile procedere “alla formazione e all’armamento di unità popolari che, ripetendo le gloriose tradizioni garibaldine del Risorgimento, diano alla guerra un chiaro e preciso carattere di liberazione nazionale” (Fondazione Istituto Gramsci, Archivio Partito Comunista). Qualcuno potrebbe obiettare che si trattò più che altro di una scelta propagandistica, ma non bisogna sottovalutare in alcun modo l’operosità intellettuale dell’antifascismo: per molti il confino fu - come si disse con orgoglio e senso dell’umorismo - una vera e propria “università”, in cui si leggevano Pisacane, Cattaneo, Mazzini, Labriola, De Sanctis, e dunque il richiamo a Garibaldi e alle camicie rosse non era un’operazione di facciata, ma una vera e propria dichiarazione d’intenti.
“Ci hanno messo alla coda” aveva detto Garibaldi dopo il Volturno, e queste amare parole di colui che venne definito il primo partigiano d’Italia furono come un monito rispetto ai limiti del processo unitario, alle incapacità riformatrici delle classi dirigenti borghesi, all’esclusione delle masse popolari dalla partecipazione attiva nella vita dello Stato, alla frattura fra città e campagna, e fra Nord e Sud, al formarsi di una solida coscienza nazionale.
Del resto lo stesso Garibaldi (che, ripetiamo, pur non essendo certo un intellettuale, era assai più perspicace e politicamente avvertito di quanto comunemente si pensi) non aveva messo a fuoco compiutamente il quadro politico e sociale del suo tempo: nel constatare con sdegno la totale mancanza di adesione dei contadini ai moti unitari, aveva sì compreso come la questione delle campagne fosse uno dei grandi nodi irrisolti del progresso italiano, ma senza cogliere la complessità dei meccanismi sociali e culturali che stavano alla base di questo scollamento fra popolo e borghesia democratica. Egli riteneva che l’indifferenza, e in certi casi l’aperta ostilità, dei ceti popolari (il termine “classe” gli era appunto estraneo) fosse determinata dall’ignoranza indotta dal clero, ed è un’opinione del tutto fondata, ma anche decisamente riduttiva. Tanto che Engels, pur avendo ripetutamente elogiato le capacità di Garibaldi (“provò in modo brillante di essere un generale atto non solo alla guerra partigiana, ma ad operazioni ben più brillanti”), scrisse: “Ho veduto stamattina, da Marx, Ricciotti Garibaldi. È un giovanotto assai intelligente, molto calmo, ma più un soldato che un pensatore. Mostra nelle sue teorie più volontà che chiarezza, proprio come il vecchio” (Friedrich Engels, Garibaldi in Sicilia). Analogamente, Marx ammirava la “genialità” di Garibaldi ma non fu mai tenero con le sue posizioni politiche, proprio per il difetto di fondo che le animava: la scarsa capacità di formulare analisi articolate sui processi economici e politici.
Ebbene, il libro di Madinelli ci aiuta a capire meglio questo aspetto, dando una visione non certo agiografica e idilliaca dei protagonisti (friulani, italiani, austriaci) dei moti del ’64: i personaggi “minori” a cui si è già accennato e quelli che ebbero un ruolo di direzione ed organizzazione. Di quest’ultimi si evidenziano le idealità e il coraggio, senza però velare i limiti umani e il colpevole attendismo di taluni, e una certa generale approssimazione sul piano logistico e organizzativo.
Ma ciò che risulta più interessante è la cornice di vita quotidiana che racchiude gli avvenimenti, riconducendo la Storia alla storia dei singoli e delle piccole comunità: entusiasmi, paure, incomprensioni, lealtà, tradimenti, generosità, compromessi, miserie, virtù, delusioni. E l’ombra cupa delle speranze inghiottite da una politica che anche allora non riesce a distaccarsi dalle corruttele e dagli interessi privati: qualcuno reagisce con rabbia, molti si adeguano, Titta Cella si suicida.

Uno dei garibaldini antifascisti, Ferdinando Mautino “Carlino”, Capo di Stato Maggiore delle Divisioni Garibaldi del Friuli, ebbe a dire che “La storia la si fa, e se occorre poi anche la si scrive, con gli uomini che ci sono e non con quelli che sarebbe bello che ci fossero.”

Alberto Burgos

 

Introduzione


Per verità è una ben curiosa maniera di scrivere la storia di un paese, quella di ricorrere semplicemente agli atti delle Polizie - come è la più pazza cosa del mondo parlare di fatti politici e insurrezionali sulla scorta eloquente dell’istruttoria dei processi relativi.
Inizio volutamente con questa frase il mio scritto, ben sapendo che racconterò fatti riguardanti l’insurrezione mazziniana del 1864, proprio utilizzando massicciamente gli atti della polizia e dell’istruttoria del processo celebrato a Venezia nel 1865 nei confronti degli arrestati che parteciparono a qualche titolo alla rivolta. Tale frase fu scritta da uno dei capi del Moto, Marziano Ciotti, in polemica risposta all’avvocato D’Agostini che nel 1880 definiva il movimento del ’64 inopportuno [...] sorgente di molti mali e di scarsissimi benefici [...] un riscaldo di gioventù illusa [...] puerile [...].
Non è mia intenzione usare i documenti processuali per dare giudizi, come fece il D’Agostini, sopratutto su di una vicenda accaduta oltre 140 anni fa, ma ricostruirne i minuti avvenimenti che sono stati taciuti dai partecipanti all’impresa che hanno lasciato, a dire il vero, scarse testimonianze. Nei rapporti di polizia, invece, si scorge tutto un mondo fatto di uomini e donne che rappresentano la società friulana di allora, con le loro pulsioni, paure, desideri, incertezze, idee, valori: insomma esistenze comuni alle quali il ciclone mazziniano - garibaldino scoperchiò le esistenze permettendoci oggi di conoscerle, a volte sorriderci sopra, stupirci per scaltrezze, restare amareggiati per le sofferenze patite e altro ancora.
La ricostruzione dell’accaduto è certamente prioritario, dunque, allo svolgimento del presente volume ma voglia il lettore leggere tra le infinite testimonianze qui proposte, le vite di nostri antenati che hanno lottato e sofferto per consegnarci un mondo migliore.
Come già proposto nel mio precedente lavoro I sentieri dei garibaldini abbino al racconto storico la scoperta e la conoscenza dei luoghi dove gli avvenimenti accaddero, vero e proprio invito a vivere direttamente la Storia, incantandoci al contempo per le meraviglie naturali e paesaggistiche che sa offrire il nostro Friuli. Il volume è diviso in due parti: nella prima si da conto di alcune notizie biografiche di Giovanbattista Cella che fu promotore della rivolta del 1864 e capitano della così detta “banda di Majano”; nella seconda parte, oltre al racconto delle avventure della banda (“la storia”), vengono proposti gli itinerari (“trasferimenti”) che essi percorsero per sfuggire all’inseguimento degli austriaci; sono inoltre descritti sotto la voce “altri sentieri” alcuni itinerari che permettono, combinati coi “trasferimenti” escursioni ad anello o la visita di luoghi particolarmente interessanti.

Ringraziamenti

Archivio di Stato di Venezia e di Udine; dott.ssa Francesca Tamburlini della Biblioteca Civica Joppi di Udine, sezione manoscritti e rari; dott.ssa Tiziana Ribezzi e dott. Loris Milocco del Museo del Risorgimento di Udine; Giancarlo D’Agostino (†) e Delia Maffei discendenti di G.B.Cella, conte Paolo Quirini pronipote di Teresa Cella; Stefano Fabiani, Gianni Oberto e Ezio Banelli storici della Val d’Incarojo; M.llo Paolo Zanier della stazione forestale di Tolmezzo; prof. Stefano Filacorda e Andrea Madinelli dell’Università di Udine; Fulvio Tolazzi, Andrea Matiz e Giorgio Cividino del C.A.I. Moggio Udinese; Gianni Pascoli, Ulisse Varisco di San Daniele del Friuli; Aldo Mansutti di Udine; Ruggero, Isidoro, Giulio, Riccardo, Dafne, Antonella, Roberta, Gregorio miei accompagnatori occasionali o assidui.

PARTE I

GIOVANBATTISTA CELLA e i suoi tempi

Giovanbattista Cella detto Titta nacque a Udine il 5 settembre 1837 nella casa di famiglia di via Mercatovecchio, angolo via Paolo Sarpi ove, al numero 48, vi è una lapide che lo ricorda.
Il padre Giorgio Cella era proprietario di una conceria ubicata nell’attuale via Pasian di Prato più o meno in corrispondenza dei numeri civici 68 - 70.
Titta studia legge prima a Padova e poi a Pavia ma non si laurea in nessuna di queste città bensì darà la tesi a Napoli o Palermo data la facilità con cui si concedeva la laurea in quelle università: era sufficiente pagare la tassa d’iscrizione e anche chi non aveva mai frequentato i corsi poteva sostenere la laurea.
La sua formazione politica avvenne probabilmente all’ateneo patavino a contatto con i rampolli della borghesia veneta, ambiente nel quale gli ideali mazziniani ebbero una grande presa, addirittura divenendo una faccenda “di moda”.
L’Università era per moltissimi studenti una vera e propria accademia che li preparava politicamente; numerosi erano i docenti che con il loro carisma si adoperavano per far crescere negli studenti l’ideale di Patria. Le riunioni avvenivano tra studenti degli stessi luoghi di provenienza e che già si conoscevano prima di entrare all’università, così da evitare il più possibile di essere scoperti dalla rete di spie e provocatori infiltrata tra gli studenti dall’attenta polizia politica austriaca.
Imbevutosi nell’adolescenza del verbo mazziniano, fu convinto e strenuo sostenitore delle idee repubblicane: ma assai più del partito amò l’Italia.
Per comprendere a fondo gli atti dell’esistenza di Titta Cella bisogna conoscere il pensiero che permeava quell’epoca, il credo mazziniano, sul quale si sono formate le generazioni del Risorgimento.
Non poteva che affascinare i giovani di allora l’idea di Italia una, libera, forte, indipendente da ogni supremazia straniera e morale e degna della propria missione. La redenzione dell’Italia, sosteneva Mazzini, doveva trarre origine da un vasto movimento di rinnovamento morale e spirituale fondato innanzitutto sulla certezza religiosa che ogni nazione ha da compiere una missione stabilita da Dio che appunto nel popolo rivela se stesso. Per l’attuazione di questa missione è essenziale che il popolo sia pienamente padrone di se stesso, nella libertà di una Repubblica indipendente ed unitaria. In tale prospettiva, Mazzini riserva all’Italia il compito di iniziatrice di un nuovo disegno sociale e addirittura di guida per il raggiungimento dell’unificazione europea.
Il concetto di Patria è iscritto, per Mazzini in un cerchio più ampio che è l’Umanità:
Italiano sia il pensiero continuo dell'anime vostre: Italiani siano gli atti della vostra vita; Italiani i segni sotto i quali v'ordinate a lavorare per l'Umanità. Non dite: io, dite : noi. La Patria s'incarni in ciascuno di voi. Ciascuno di voi si senta, si faccia mallevadore [garante] dei suoi fratelli: ciascuno di voi impari a far sì che in lui sia rispettata ed amata la Patria.
Qui si riconosce il pensiero della non centralità dell’individuo dell’apertura verso il prossimo, del sacrificio e della generosità che Mazzini chiamava Dovere degli uomini: Bisogna convincere gli uomini ch'essi, figli tutti d'un solo Dio, hanno ad essere qui in terra esecutori d'una sola Legge - che ognuno d'essi, deve vivere, non per sé, ma per gli altri - che lo scopo della loro vita non é quello di essere più o meno felici, ma di rendere sé stessi e gli altri migliori - che il combattere l' ingiustizia e l'errore a beneficio dei loro fratelli, e dovunque si trova, é non solamente diritto, ma dovere: dovere da non negligersi senza colpa - dovere di tutta la vita.
Se i vostri doveri non fossero che negativi, se consistessero unicamente nel non fare il male, nel non nuocere ai vostri fratelli, il grido della vostra coscienza basterebbe a dirigervi. Siete nati al bene, e ogni qual volta voi operate direttamente contro la Legge, ogni qual volta voi commettete ciò che gli uomini chiamano delitto, v'è tal cosa in voi che v'accusa, tale una voce di rimprovero che voi potrete dissimulare agli altri, ma non a voi stessi. Ma i vostri più importanti doveri sono positivi. Non basta il non fare: bisogna fare.
Non basta limitarsi a non operare contro la Legge; bisogna operare a seconda della Legge. Non basta il non nuocere: bisogna giovare ai vostri fratelli.
Vedremo, proseguendo in queste note biografiche, che l’esistenza di Titta è impregnata di questi concetti e la sua persona diventa un esempio pratico del pensiero di Mazzini. Come ci dirà la Storia il progetto mazziniano di Progresso dell’Umanità andrà dimenticato in quanto troppo difficile da perseguire in termini di sacrifici ed abnegazione, spazzato via da ideologie di più facile attuazione ed immediato tornaconto. In questo oblio perirono anche gli uomini migliori del Risorgimento, tra cui Cella, troppo votati ad un bene assoluto.
Dopo la presa di coscienza patriottica avvenuta a Padova emigrò a Pavia, proseguendo gli studi presso la locale università. Nel 1859 si arruolò col corpo di volontari, i Cacciatori delle Alpi, che Garibaldi andava organizzando in prospettiva dell’imminente dichiarazione di guerra all’Austria, resa possibile dall’alleanza del Piemonte con la Francia (Seconda Guerra d’Indipendenza 26 aprile, 8 luglio 1859). In questo periodo conosce e intreccia rapporti coi più bei nomi del Risorgimento friulano: Ippolito Nievo, Marziano Ciotti, Riccardo Luzzato, Alfonso Morgante e altri che saranno suoi compagni d’arme nelle successive imprese garibaldine. Titta, terminata la guerra prende alloggio a Milano e si distingue per la generosità nei confronti degli emigrati veneti:
Cessata la campagna del 1859, ci trovammo in Milano, ove ebbi campo di conoscere sempre più il Cella per un distinto e generoso giovane, imperrocchè non mancava porgere aiuto a chi a lui si rivolgeva ed in specialità agli emigrati sprovvisti di mezzi che colà si trovavano pronti a muoversi al primo grido di guerra...
Tutto questo lungo esordio era necessario premettere per disporre meglio l’animo tuo ad accondiscendere ad una preghiera che sto per rivolgerti.
Ecco la preghiera. Avrei bisogno di 10 marenghi per 3 mesi, somma che è la condizione assoluta di probabilità o meno di portarmi a Teglio.
Questa disponibilità di denaro derivava dai genitori che assecondarono ed aiutarono orgogliosamente il figlio, intessendo rapporti coi patrioti italiani e in particolare con Adelaide Bono vedova Cairoli con la quale intrattennero un discreto contatto epistolare . In un secondo momento anche il fratello di Titta, Antonio, di qualche anno più giovane emigrò a Milano. E’ dunque da tener presente che anche la famiglia ebbe una parte notevole nell’educazione libertaria e patriottica di Titta: è quel diffuso substrato di valori in cui si cresce che permette lo svilupparsi di alte coscienze civili.

Il primo grido di guerra fu lanciato alla fine di aprile del ’60 ed il 5 maggio partì la famosa spedizione dei Mille tra i quali anche Titta. Inquadrato nella 7ª compagnia agli ordini di Benedetto Cairoli si distinse subito per l’ardimento meritandosi encomi e promozioni fino ad essere nominato sottotenente dopo la battaglia del Volturno. Garibaldi, gran conoscitore di uomini, lo dichiarò “...valoroso compagno d’armi”.
Scrive alla mamma da Palermo il 4 giugno 1860:

Carissima mamma, il solo pensiero che mi turba è di averti dato questo nuovo dispiacere e cerco di sollevarmi col scriverti appena che posso.
Nel partire da Quarto indirizza una lettera al fratello a Milano e lo prega di rendere noto alla mamma il suo gesto la quale, come logico, vive in grande apprensione. Cerca di chetarla:
Io per me ho ferma speranza di tornarti ad abbracciare e faccio voti perché tu ti munisca di altrettanta fiducia e coraggio e non pensi a disgrazie.
Sono quattro giorni che mi trovo in Palermo e mi sono rimesso dalle fatiche del campo poiché adesso siamo in armistizio e si teme che duri a lungo. Sono fra tutti i miei amici, fra i quali Riccardo Luzzato; tutti siamo stati fortunati e non abbiamo a lamentare nessuna perdita dei Friulani.
Tace alla mamma che invece a Calatafimi perde la vita Eugenio Sartori da Sacile.
Qui non sappiamo precisamente se la guerra si prolungherà ancora molto o cesserà del tutto; il certo si è che le nostre sorti sono migliorate e ci troviamo in buonissima posizione contro il nemico. Puoi scrivermi se vuoi a Palermo all’Albergo Trinacria e puoi immaginarti quanto consolanti mi sarebbero vostre nuove. Certo sempre del tuo amore per me, te ne faccio nuovamente professione e ti mando mille baci di tutto cuore. Bacia per me lo zio che temo sarà verso me adirato e cerca di tranquillarlo; ad uno ad uno bacia per me fratelli e sorelle, saluta i Quirini e scrivimi se puoi che io non mancherò di fare altrettanto. Tuo aff.mo Battista.
Una delle sorelle, Teresa, è già allora maritata con il conte Giacomo Quirini di Visinale, famiglia che diverrà, come vedremo, un suo punto di riferimento dopo il 1866.

La fortunatissima spedizione dei Mille ebbe una vasta eco internazionale e i partecipanti furono glorificati come fondatori del nuovo Stato Unitario. Non poteva mancare per essi un riconoscimento dal Governo che, a partire da luglio 1862, si risolse ad attribuire ai Mille una pensione di 480 lire annue, elevate successivamente a 1000. Titta Cella avanzò domanda per tale pensione solo nel febbraio del 1863 ed ottenendola con decorrenza da luglio. Nel settembre del ’62 Titta tornò a Udine per curare gli affari di famiglia e incaricò il fratello di ritirare la pensione. Ma l’ufficio preposto si rifiutò il pagamento perché la legge prevedeva la sospensione della pensione a chi si stabiliva all’estero. Tornato a Milano nel giugno del ’63 Titta iniziò una serie infinita di pratiche e domande per ottenere quanto gli spettava riuscendo ad avere anche gli arretrati a datare da luglio 1862. Ma le sue avventure con la pensione dei Mille non erano finite. Nei primi mesi del ’64 egli ritorna a Udine per preparare l’insurrezione e non può, giocoforza, ritirare l’assegno mensile.
Di nuovo in Lombardia nel ’65 riaccende il contenzioso con l’amministrazione piemontese dichiarando di essere stato impossibilitato al ritiro della pensione per una grave malattia, producendo un certificato medico fasullo. Dopo corsi e ricorsi verrà riammesso al godimento dei suoi diritti perdendo però gli emolumenti di tutto il ’64.

Nell’estate del 1862 Titta partecipò all’impresa, finita in Aspromonte, che intendeva liberare Roma, con molti altri friulani, tra i quali anche Valentino Asquini da Majano che sarà con lui nella banda armata di cui racconteremo le gesta in queste pagine.
Già nella primavera di quell’anno vi fu un reclutamento in massa di emigrati e fuoriusciti veneti che organizzarono un tentativo di penetrare in Trentino per costringere il Governo italiano ad una guerra contro l’Austria (fatti di Sarnico, maggio 1862). A seguito di proteste internazionali contro questa mossa, il Governo fece arrestare un centinaio di attivisti imprigionandoli in alcune carceri lombarde, stroncando il progetto. Certamente tra questi vi era anche Titta Cella. Subito liberati, i patrioti veneti correranno alla chiamata di Garibaldi che in Sicilia preparava il corpo di spedizione al grido di “ Roma o morte” che si concluderà, come detto, in Aspromonte, bloccato dall’esercito regolare italiano.
Con queste due sconfitte dell’attivismo patriottico mazziniano e garibaldino del ’62 restavano irrisolti i due grandi problemi dell’unità italiana: Roma e il Veneto. Il travaglio politico che portò al tentativo insurrezionale veneto non è oggetto del presente saggio e qui ci limitiamo a mettere in risalto il ruolo che ebbe Titta Cella.
Una lettera di Benedetto Cairoli a Cella del settembre 1863:

Voi pure deplorate, e ben giustamente, questa apatia della Nazione, che sembra chiudere gli occhi alla rovina. Ma può durare a lungo la colpevole inerzia? Io ricordo a mio conforto che il popolo italiano ebbe subitanei slanci di eroismo, quando più lo si vedeva rassegnato alla viltà. (...)
Intanto dobbiamo concentrare tutti i nostri sforzi nella pronta soluzione della questione veneta, che presenta all’Italia l’inesorabile dilemma dell’essere o non essere.
Cairoli assume la presidenza del Comitato Centrale Unitario che s’incarica di trovare i finanziamenti ed organizzare l’insurrezione. Titta Cella, all’inizio del ’64 rientra in Friuli richiedendo all’amministrazione austriaca il permesso di ristabilirvisi, ottenendo il passaporto. Ingannò così bene le autorità tanto che anche molti udinesi lo pensarono un vigliacco, un debole, traditore della causa patria. Ma Titta lavorava in silenzio per la rivoluzione. In questo periodo conosce e ama Giacomina Turco una ragazza di Romans di Varmo che lascia incinta.
L’ottenimento del passaporto gli permise di andare a venire a suo piacimento così che, quando serviva, dal Friuli si mandava lui in Italia. In particolare ricordiamo che in quel periodo fu inviato dal Comitato D’Azione Veneto a conferire con Mazzini a Lugano e con Garibaldi a Caprera.

È opportuno ora aprire una parentesi per dare conto della preparazione dell’insurrezione veneta e dei prodromi che portarono alla formazione della banda di Majano di cui più ampiamente si occupa questo volume.
Negli anni seguenti la proclamazione del Regno d’Italia furono studiate, tra il Re Vittorio Emanuele, Garibaldi e Mazzini, numerose soluzioni militari che in sostanza prevedevano una insurrezione interna, non solo nel Veneto ma anche nell’Europa balcanica e danubiana per mettere in difficoltà, su più fronti, l’Austria, già impegnata a sedare la rivolta polacca e sull’orlo di una guerra con la Prussia per le province danesi, con l’intento di estendere i confini italiani includendovi le tre venezie.
La visione di Mazzini e del Re erano però discordanti: il primo voleva che il Veneto desse il via alle insurrezioni europee, convinto del ruolo guida dell’Italia nella determinazione di una nuova Europa, la Giovine Europa, l’Europa dei popoli liberi e democratici costituiti in una federazione di tipo americano; il Re vedeva di buon occhio e avrebbe appoggiato rivolte in Serbia, Grecia, Ungheria, con l’invio di Garibaldi a supporto e solo in un secondo momento nel Veneto per essere sicuro di avere il potente esercito austriaco impegnato su più fronti; inoltre egli sperava in una qualche conquista nei balcani per ottenere un trono per la sua discendenza.
Quando avvenne la rottura definitiva delle trattative senza un nulla di fatto, Mazzini decise di iniziare i preparativi in modo autonomo contattando, in Friuli, Veneto e Trentino i suoi fedelissimi tra i quali il medico condotto di San Daniele Antonio Andreuzzi nativo di Navarons di Meduno. Nelle sue Memorie Andreuzzi racconta:

Il giorno 14 marzo 1863 in Villanova, sobborgo di San Daniele restai sorpreso dalla grata visita dell’esule C. Pogni, il quale a nome di Giuseppe Mazzini e di Giuseppe Garibaldi percorreva le venete province colla missione documentata di istituire in ognuna di queste un comitato del Partito d’Azione che, messi in armonia, avvisassero ai mezzi materiali e morali di preparare un’insurrezione per bande, che dall’Isonzo al Tirolo comprendesse tutta la catena delle Alpi: insurrezione atta ad offrire l’opportunità d’intervento a Garibaldi prima, al governo poi, per liberare il Veneto dal dominio straniero; questo era il proposto programma.
Assunsi di buon grado il difficile incarico, scorgendo in questo programma la viva speranza d’indipendenza, unità e libertà della patria, al compimento della quale da ben oltre 30 anni consacrata era la mia vita.
Il giorno 20 ottobre il comitato era già formato nelle persone: Francesco Rizzani, G. Batta Cella, Della Giusta, Valentino Asquini, Perosa Osvaldo, R, Gisnado (Merss), Pietro Beltrame, Gaetano Biasutti, G.B. Rinaldi, che unanimi mi vollero a presidente, per la maggior parte Garibaldini e che tutti poi hanno lavorato per il bene del paese col programma del Partito d’Azione.
Distribuito a ciascuno il lavoro possibilmente a seconda delle attitudini fisiche e morali, ognuno di essi all’opera con animo volenteroso rispose.
Va senza dire che in tutte le altre province venete si istituirono simili comitati, che si misero fra loro in armonia.
Nella notte dal 30 al 31 maggio 1864, un anno dopo l’istituzione del comitato fu indetta una riunione generale a Padova alla quale intervennero due membri di ciascun comitato, ed il colonnello Chiassi. Ogni comitato fece il rapporto dei preparativi e delle forze disponibili, e da questi risultò che molto mancava per la propostaci insurrezione, e si raccomandò di progredire più presto al definitivo apparecchio, giacché la stagione era inoltrata. S’indisse un altro consiglio che ebbe luogo la notte dal 19 al 20 agosto alla presenza dei due colonnelli garibaldini Chiassi e Guerzoni. Dopo lunga discussione restò perentoriamente stabilito il giorno 4 settembre per l’insurrezione per bande, che come da programma, si estendesse lungo la catena delle Alpi dal Tirolo all’Isonzo e che le città spargessero il panico nelle truppe facendo scoppiare loro addosso qualche bomba, delle quali ognuna era fornita.
La cospirazione era ordita in modo che se anche scoperta in una provincia le altre restassero salve.
Ritornato ciascuno alle proprie province per disporre per la gran giornata, corse la fatale notizia della scoperta di armi in Tirolo e dell’arresto dei congiurati, compresi i tre giovani che si erano trovati con noi a Padova nella menzionata adunanza.
Questa grave notizia mise la costernazione a tutti. Si radunarono i membri principali dei comitati del Friuli, di Treviso, di Belluno e vi prese parte Tolazzi che in quei giorni era arrivato a Navarons dall’Italia regia con mio figlio ed altri ufficiali garibaldini, per assumere il comando degli insorti.
L’infausta notizia del Tirolo servì di pretesto ad alcuni paurosi del nostro partito per dichiararsi contrari all’agire.
Nella casa del sig. Osvaldo Perosa di Villanova calorosamente si discusse la questione se in vista al doloroso incidente tirolese, dovesse aver luogo l’iniziativa fissata pel giorno 4, o se si dovesse a tempo più opportuno aggiornare. Io dichiarai che si doveva assolutamente insorgere il dato giorno, perché aggiornando si dava tempo alla polizia austriaca che s’era messa sulle tracce di tutto scoprire e di impadronirsi delle persone non solo, ma dei mezzi materiali con tanto pericolo e dispendio preparati; fatto che avrebbe portato lo scoraggiamento nel Veneto e reso ridicolo il nostro partito stesso di fronte ai moderati, mentre invece insorgendo in guerriglie sulla catene delle Alpi, si poteva ravvivare l’entusiasmo e la fede nei Tirolesi, non spenti ma indeboliti.
Sostenevano calorosamente la mia parte Tolazzi e Bonaldi. Parlarono contro Zuzzi dott. Mattia di Codroipo e G.B. Cella, sostenendo che da soli non si faceva niente e che bisognava dare tempo ai tirolesi di rifarsi.
Dopo calorose discussioni si venne alla votazione, e scrutati i voti riuscirono pari, vale a dire sei per iniziare la insurrezione il giorno 4, e sei per rimandarla.
Tra i primi furono: Andreuzzi dott. Antonio di Navarons, Tolazzi Francesco di Moggio, Pittoni Innocente di Conegliano, Della Giusta di Codroipo, Ongaro Luigi di S. Daniele e Bonaldi Antonio; tra i secondi: Zuzzi dott, Mattia di Codroipo, Beltrame Pietro di Ragogna, Perosa Osvaldo di Villanova, Mattei avv. Antonio di Treviso, Rizzani Francesco e Giov. Batt. Cella di Udine.
Di faccia a questa dolorosa risultanza si decise mandare Cella e Bonaldi a Caprera a consultare.
Partirono il 16 settembre. Riferirono, che il Generale li consigliava a star pronti in armi tutto l’autunno e di iniziare il moto tosto che fossero insorti gli Ungheresi, i quali avevano lusingato che sarebbero insorti in quella stagione: se questa sperata insurrezione non avvenisse, studierebbero
quello che credevano più opportuno; se poi la polizia scoprisse tutto, consigliava la difesa armata riunendosi in bande: ma purtroppo i paurosi innalzarono la bandiera dell’inerzia, e noi restammo isolati.
Il giorno 3 ottobre una staffetta mi chiama a Navarons, ove mia moglie con la figlia riceveva gli ufficiali garibaldini: Tolazzi, Ferrucci, mio figlio e compagni, che fino dal 18 agosto erano stati inviati dal comitato unitario centrale per formare i quadri dell’insurrezione, coprendo questo
nobile scopo col pretesto di allevar bachi ed altre occupazioni agricole, e così togliersi alla vigilanza dei poliziotti.
Arrivato a Navarons trovai una commissione di Belluno e Conegliano composta dai capi cospiratori a me pienamente noti, i quali esponevano come la polizia di Belluno fosse sulle tracce di tutto scoprire, atteso il movimento dei volontari che erano stati fatti per essere pronti il 21 settembre; e che in vista di questo, piuttosto che perdere il frutto di tanti preparativi, avevano deciso d’insorgere e perciò domandavano la nostra adesione. Discussa la proposta e trovandosi nei panni pressoché eguali, e alle identiche circostanze di pericolo, fu presa d’accordo, la perentoria dichiarazione di insorgere il giorno 16 ottobre e di spedire uno dei nostri a Milano a partecipare a quel comitato centrale unitario la nostra irrevocabile risoluzione.
Il mandatario aveva ordine, ove trovasse favorevole appoggio alla nostra impresa di comunicarla per telegramma al Pittoni in Conegliano.
Il giorno 4 ottobre partiva Valentino Asquini e il giorno 10 spediva favorevolissimo telegramma e ci si assicurava dell’appoggio nella nostra impresa. Questo telegramma il Pittoni lo spedì tosto a Udine a quei del comitato onde si preparassero a prender l’arme per il giorno 16; il Pittoni,
fiducioso nella riuscita, ci prometteva pel giorno 17 la lieta notizia della vittoria sopra Belluno. Tolazzi era partito per la Carnia e disceso per la valle del Tagliamento ad Ospedaletto a disporre per la riuscita del vagheggiato piano sul forte di Osoppo. Il Cella rispondevami che egli, benché persistesse a ritenere l’impresa di una riuscita non favorevole, pure trattandosi di prender l’armi contro l’Austria sarebbe nelle nostre file, ed aggiunse che questi atti piacevano a Garibaldi, e mi lasciò assicurandomi che anch’egli partirebbe quella sera stessa per Udine ad indurre i suoi colleghi a mutar divisa e concorrere con tutti i mezzi alla riuscita della giornata del 16 ottobre.
Non può dirsi quanto contento io tornassi a S. Daniele e come io partecipassi al Biasutti e all’Ongaro la generosa risoluzione del Cella, invitando loro a fare altrettanto. La notte del 5 ritornava Tolazzi e il Vico dalla Carnia, contenti di aver trovato in essa e negli abitanti di Ospedaletto e Tarcento piena adesione al piano di Osoppo, e di aver partecipato il tutto al comitato di Udine, per il suo appoggio.
Poche ore dopo fummo chiamati a Villanova. Ivi troviamo il Mattia Zuzzi, il Cella, il Beltrame; questi ultimi, consigliati dal primo, venivano a dichiararsi contrari alla stabilita iniziativa!
Ognuno può immaginarsi quale sia stata la mia dolorosa sorpresa. Richiamai il Cella a riflettere alle promesse del giorno antecedente e crucciato andai a letto per passare una notte delle più orribili.
Mi alzai appena giorno e li trovai tutti in cucina ove li aveva lasciati. M’invitarono a sedere vicino a loro. Dopo, il Cella si alzò e disse:
– Per ordine dei membri del comitato, presenti Zuzzi Mattia, Osvaldo Perosa, Pietro Beltrame e a nome degli assenti Francesco Rizzani e Giovanni Pontotti, io vi intimo il veto al progetto di insurrezione stabilito da voi per giorno 16 come rovinoso per la Patria, e contrario agli ordini di Garibaldi, e v’intimo che ne facciate avvertiti quei di Capo di Ponte, Ferrucci e compagni.
Voleva parlare una volta ancora, ma prese la parola il Zuzzi. Mi alzai sdegnato, lanciando non so quali parole di risentimento.
Il Zuzzi mi disse: – Se voi insorgete, noi vi abbandoneremo, e andremo oltre il Mincio, e allora che si dirà di Voi?
– Di voi si dirà che foste vili!
Con queste parole ci lasciammo il giorno sei, per mai più vederci nel Veneto durante la mossa.
Dimenticato il voto intimatomi dal Cella ed ogni personalità, non pensando che alla salute della patria, spedivo tosto a Udine un distinto nostro patriota e cospiratore sempre saldo al nostro partito, Gaetano Biasutti, con copia del telegramma arrivato da Milano perché lo presentasse al giovine G.B.G. onde volesse radunare i membri del dissenziente comitato, e tra i primi il Cella, ed accompagnato da raccomandazioni persuasive perché volessero insorgere il giorno 16 con le loro bande per unirsi a noi sul monte; ed io pure lo accompagnava con parole conciliative, e terminavo dicendo che ero ben fiducioso che quei giovani che avevano meco lavorato con tanto zelo e senno nel lungo periodo di cospirazione non avrebbero di certo mancato nel vicino giorno dell’azione.
Ritornava il Biasutti nell’indomani 12 e mi assicurava che il G. avrebbe tosto raccolto gli amici e resili persuasi di esser pronto pel giorno 16.
Il giorno stesso io partiva da S. Daniele col pretesto di ammalati e nel domani mi seguirono le altre figlie Paolina ed Italia, accompagnate da N.R. col pretesto di partecipare alla vendemmia con il resto della famiglia.
Trovai Silvio, Tolazzi, Zacchè ed il Vico di una attività furibonda. Correvano giorno e notte per approntare i volontari, perché discendessero dalle valli per vie non frequentate, nascondendoli; per procurar viveri.
Mia moglie animava Silvio e Tolazzi, rampognava i codardi, e con le figlie e sorelle preparava il vitto. Lavoravano con Carlotta moglie di Silvio, a finire le camicie rosse; Michele Michielini provvedeva capre: insomma era un affaccendarsi, un andirivieni di gioventù mai più visto in quel paesello, il cui scopo era conosciuto da tutti i capi famiglia che rispondevano ai pochi forestieri che ivi passavano, esser questi preparativi per una gran caccia sui monti.
Il sole del 15 ottobre tramontava, e lasciava il villaggio di Navarons in una quasi direi forsennata agitazione. In molte private famiglie erano ricoverati volontari accorsi coi loro parenti ed amici che ve li accompagnavano.
Dopo la cena servita con capre in varie guise preparate, Tolazzi che assumeva il comando della banda con Silvio e Ciotti, armarono i 63 volontari.
La notte dal 15 al 16 ottobre era convenuto cogli altri comitati di sorgere e di spandersi in bande dall’Isonzo al Tirolo, in modo da occupare tutta la catena delle Alpi onde offrire opportunità di intervento a Garibaldi prima coi volontari ed al Governo poi con l’esercito.
I Navaronesi e i loro coalpigiani non mancarono alla data parola, capitanati dal prode Tolazzi, dagli Andreuzzi padre e figlio, vita e anima il primo della cospirazione e che per due anni avvisò ai mezzi di preparazione per la su indicata iniziativa. Ma non la mantennero gli altri perché la perfida insinuazione dei moderati diffuse la calunnia in quelle generose valli, ed immobilizzò quelle popolazioni nella solita malaugurata speranza del lasciar fare a chi tocca, e mettendo in gioco le solite arti lafariniane, mostrando lettere del Cavalletto e compagni, e compiangendo noi come gente pazza e riscaldata.
La nostra banda diresse i primi colpi contro il dispotismo straniero a Spilimbergo e Maniago.
Riunita nella casa nativa di mia moglie Caterina, alle due antimeridiane partiva da Navarons, arrivava in Spilimbergo disarmava la gendarmeria, s’impadroniva della cassa erariale quindi partiva per Maniago e faceva altrettanto. In Spilimbergo il capo del Comitato e quello che teneva l’arruolamento dei volontari, non comparvero, gli altri fuggirono, e nessuno ricevette la banda. A Maniago arrivavasi poche ore dopo. Simpatica accoglienza promesse di seguir la banda e raggiungerla la sera in Tramonti: promesse mancate.
Il 16 ottobre 1864 dunque, nonostante la contrarietà di Cella, la banda armata di Navarons, guidata da Antonio Andreuzzi, inizia le operazioni. Titta si reca immediatamente a Milano per sentire il Comitato Unitario. Scrive Ergisto Bezzi:

Insorto il Friuli, il Comitato centrale allora residente a Torino mandava a Milano Guerzoni perché facesse pratiche presso gli emigrati onde trovare il modo migliore per appoggiare quel moto. Si tenne una riunione e, come sempre, i pareri furono molti e molto diversi; tutti parlavano meno il Cella, e non si concludeva. Egli, stanco di veder perdere un tempo prezioso in chiacchiere, vincendo la naturale timidezza, chiese la parola e disse:
M’incarico io di penetrare nel Veneto e di comporre una nuova banda di insorti, che formerò nei dintorni di Udine, purché mi si dia la parola d’onore che, una volta insorto, mi si appoggerà col formare delle bande di giovani al confine che invaderanno il Veneto ed il Trentino.
Cella rientra in Friuli alla fine di ottobre ed incontra a Valvasone un emissario del dr. Andreuzzi, Osvaldo Michielini detto Vico, e lo assicura che Ergisto Bezzi sta per entrare nel Trentino dalla Lombardia con 300 volontari, che altre insurrezioni si stanno organizzando altrove e che lui stesso verrà in soccorso della banda di Andreuzzi, il 3 o 6 novembre, dopo aver fatto saltare, a Codroipo, il ponte sul Tagliamento; Cella congeda Vico Michielini con 94 marenghi d’oro da consegnare all’Andreuzzi. Si preoccupa di trovare sicuro rifugio per la sua Giacomina che è in gravidanza lasciandola presso la levatrice Maria Agosti Pascottini (quarantenne, rossa di capelli) a Udine, in contrada Cicogna n° 1331 , intima conoscente di Francesco Rizzani, facente parte del comitato insurrezionale.
Si adopera poi per mettere in piedi una banda trovando una trentina di uomini nei paesi di San Daniele, Majano e limitrofi, argomento che tratteremo diffusamente nelle pagine di questo volume.
Sciolta la banda Titta scappò subito oltre confine certo che la sua compagna fosse ben protetta e in buone mani.
Senonchè ai primi di gennaio 1865 Gio. Batta Fontanelli, un componente la banda di Majano, espatriato dopo i fatti, scrisse una lettera dalla Lombardia, a Francesco Rizzani accampando pretese pecuniarie, con la minaccia, se non corrisposte, di andare alla polizia e scoperchiare le collusioni del Rizzani e di altri udinesi con l’insurrezione. Il Fontanelli, dopo una licenza di tre giorni a Natale del 1863, non era tornato al suo reparto e, in quanto disertore dell’esercito austriaco, girava ramingo per le campagne di San Daniele e Majano ed era ben conosciuto da Valentino Asquini che al momento opportuno lo arruolò per l’insurrezione.
Dopo lo scioglimento della banda di Majano, Fontanelli si nascose dalla sorella a Pozzo di Codroipo da dove, su consiglio del fratello Luigi si recò a Udine prendendo contatto con un certo esattore Gonani che lo nascose in casa della levatrice Pascottini, pagando il suo soggiorno con una sovrana d’oro. Qui rimase dal 15 al 26 dicembre e vi conobbe Francesco Rizzani nonché Giacomina Turco; fu poi fatto partire per l’Italia ricevendo 160 svanziche. La casa di contrada Cicogna fu usata come nascondiglio per molti dei componenti delle bande armate friulane in fuga: di qui passarono Silvio Andreuzzi, Vico Michielini, Tolazzi, Ciotti, Giovanni Michielini, Salsilli.
Fontanelli trovandosi a Milano in precarie condizioni, senza lavoro, alloggio e denaro, consegnò la missiva ad un certo Chiappini che non la portò mai al Rizzani perché gli fu sequestrata al confine dalla polizia austriaca.
Rizzani, trovatosi investito dai sospetti della polizia, causa questa lettera, fece precipitosamente partire Giacomina Turco per la Lombardia, affidandola a qualche passatore, fuga che si rivelò avventurosa e difficilissima. La casa della levatrice fu perquisita e furono trovate quattro bombe all’Orsini sotto il cuscino di una poltrona e la levatrice arrestata.
Dopo la partenza da Udine Giacomina ebbe le doglie mentre cercava di guadare il Piave nei pressi del Ponte della Priula che era fortemente vigilato dagli austriaci: partorì nascosta tra le macchie di rovi sul greto del Piave sotto il Ponte della Priula.
Dopo incredibili peripezie degne di un romanzo d’appendice Giacomina e il neonato riuscirono a passare il confine. Giacomina morì nel maggio 1865 a Cassano d’Adda per le conseguenze del parto non assistito.

Il figlio di Titta e Giacomina sarà registrato nell’atto di nascita col nome di Balilla e il cognome della madre in quanto figlio illegittimo. Titta farà richiesta di riconoscimento nel 1867 ottenendone notizia finalmente il 9 settembre dell’anno seguente dall’amico avvocato Billia, friulano ed esercitante la professione forense a Milano:
Tu calunni S. M. il Re accusandolo di un ritardo in cui non ci ha colpa. Tuo figlio Balilla è stato legittimato con decreto reale 10 maggio 1868, registrato il 15 stesso alla Corte dei Conti e il 30 alla Procura Generale. Quel decreto lo ho io nelle mani e lo devo adoperare per far eseguire in Cassano l’annotazione in margine all’atto di nascita della seguita legittimazione.
Balilla resterà a Cassano d’Adda presso amici intimi di Titta che lo avrà sempre nei suoi pensieri; alla vigilia della guerra del ’66 scrisse alla madre:
Come ti sarai immaginata, neanche questa volta posso fare a meno di correre alla guerra; ma adesso lasciando dietro a me delle conseguenze ho pensato a provvedervi nel caso della mia morte.
Tu sai che con ciò alludo a mio figlio Balilla. Se sapessi quanto mi costi abbandonare questo angioletto! Ma anche tu nel 1859 avevi tutto il mio amore e pure t’abbandonai: fatalità è per me l’amore di patria a cui non posso resistere. Conoscendo il tuo buon cuore, ti raccomando mio figlio e ti nomino sua tutrice. Son certo che non vorrai rifiutarti di assistere quel bambino e di eseguire le mie disposizioni di ultima volontà. Pensa al suo stato d’infelice orfanello ed esaudisci i miei ultimi voti, che io di lassù te ne sarò eternamente grato.
Dopo il 1866 Balilla rientrerà col padre in Friuli che lo affida alla sorella Teresa presso i nobili Quirini a Visinale di Pasiano (ora provincia di Pordenone). Balilla concluso il servizio militare in Marina diviene Magistrato alle acque; sposa Delia Podetti dalla quale unione nascono Paola e Nini. Balilla muore appena quarantenne per una malattia polmonare; è sepolto nel cimitero di Visinale di Pasiano nella tomba della famiglia D’Agostino.

Passa solo un anno dal tentativo veneto che il nostro Titta si rimette in movimento credendo ancora possibile una insurrezione popolare nelle province venete. Seguiamo gli accadimenti attraverso le note del Dizionario del Risorgimento:

Il Comitato d’Azione per il Veneto (composto allora da Ergisto Bezzi, trentino, dall’avv. Cesare Parenzo di Rovigo e dal Verzegnassi [Francesco] di Udine) aveva unanimamente proposto al Cairoli il nome del Cella come quello dell’uomo più adatto per organizzare delle bande nel Veneto. Il governo non vedeva di mal occhio il tentativo.
Al contrario dell’anno precedente, che addirittura fece arrestare alla frontiera i volontari guidati da Ergisto Bezzi intenzionati ad entrare in Trentino, il Governo italiano appoggia l’iniziativa perché intravvede la possibilità di una guerra all’Austria con un patto d’alleanza con la Prussia. Inoltre i preparativi del ’66 sono organizzati da filomonarchici come Alberto Cavalletto e i succitati Parenzo e Verzegnassi, mentre nel ’64 i più attivi erano i repubblicani- mazziniani che i Savoia temevano come destabilizzatori del loro potere. La posizione politica di Cella si delinea durante i fatti del ’64 quando non condivide l’azione di Andreuzzi, dando ascolto ai moderati, tenendo come obiettivo il bene della Patria e il raggiungimento dell’Unità nazionale, anche se unificata sotto l’egida di una monarchia. Si affievoliscono in lui, quindi, le pulsioni democratiche e repubblicane, schiacciate dal bisogno innanzitutto di giovare alla causa nazionale. Questo lo porterà ad una serie di compromessi con se stesso che infine non saranno più sostenibili.
Nel maggio si iniziarono le trattative che però andarono troppo alle lunghe. Il Cairoli agiva d’intesa con Garibaldi e procurava di aiutare in qualche modo il movimento. Alberto Cavalletto, che era alla testa del partito moderato, si teneva pure in relazione col Cella, il quale, disposto a ricevere aiuti da qualunque parte, purché si facesse guerra all’Austria, dichiarava che questa volta non avrebbe agito se non con mezzi adeguati. Al principio di giugno il Cella andò a Firenze donde tornò a Milano con parecchi passaporti procurati dal governo insieme con 10.000 lire, le quali dovevano servire per l’entrata nel Veneto di nove capi del movimento sotto la direzione di esso Cella. Incaricati di fiducia, per mezzo di certi buoni contrassegnati da un timbro che il Cavalletto aveva mandato al Cella, dovevano esperimentare prima le più o meno buone disposizioni delle popolazioni del Veneto. Il Cella sarebbe entrato coi compagni entro il confine quando il paese avesse dimostrato – scontando senza ambagi quei buoni – di essere veramente disposto ai sacrifici d’ogni genere necessari per la riuscita dell’impresa. Il Vittorelli e il Tivaroni, erano frattanto entrati per armare la banda del Cadore. Ma, allora le popolazioni delle contrade non parvero rispondere con lo sperato entusiasmo a quei primi appelli. Il Cella cominciò a dubitare.

Abbiamo cognizione di questa fervente attività dal già citato Gio. Batta Fontanelli che racconta alle autorità austriache:

Mentre io era a Milano imparai a conoscere il comitato che colà si è formato, esso è composto dai fuggitivi Biglia di Sacile, Pontotti di Udine, Bezzi, Gio. Battista Cella e Verzegnassi Francesco entrambi di Udine, certo Cavallo di Padova avvocato e Pittoni detto il Gobbo di Conegliano. Questo comitato sta in corrisondenza coi comitati qua nel Veneto e si serve di due individui, uno di Padova e l’altro tirolese che io stesso ho veduto una volta giungere in Milano e mettersi in comunicazione coi membri di quel comitato; questi due raccolgono denaro da questi comitati veneti, e lo portano a quel di Milano, onde provvedere armi che vengono poi spedite ed introdotte in questi I. R. Stati. Costoro poi portavano la notizia che qualora giungesse il momento di una nuova insurrezione, tutto avrebbero trovato apparecchiato per sostenerla con armi, uomini e denaro. Questi due giovani di circa 28 anni di statura alta, di bella presenza, vestono signorilmente con orologi e catene d’oro e parlano anche il dialetto ferrarese. Entrambi portano i baffi, uno ha la barba nera e l’altro castagna e quando ricevono ordini per iscritto, li portano in un pezzetto di carta che avvolgono come una palletta, onde in caso di sorpresa, prenderla subito fra le mani e gettarla via senza che alcuno possa fare osservazione. Costoro nel viaggiare passano ora da Peschiera colla ferrata, ed ora da Ferrara in vettura. Il padovano gira senza recapiti, ma il tirolese è munito di passaporto, e costoro sono sempre in movimento per Milano e per il Piemonte onde adempiere agli ordini del comitato [da questa descrizione si riconoscono Tivaroni e Vittorelli].
Il caffè Martini a Milano è il luogo di riunione del comitato e di là si dispone degli affari politici, per cui introducendosi fra di loro si potrebbe il tutto scoprire.

In concreto non fu fatto nulla, tranne che temporeggiare, come era costume dei moderati che attendevano che qualcun altro togliesse le castagne dal fuoco: così avvenne con lo scoppio della Terza Guerra d’Indipendenza e la conseguente conquista da parte dei Savoia di parte delle province venete.
Titta abbandona i progetti d’insurrezione quando si profila certa la guerra contro l’Austria e si arruola coi bersaglieri volontari di Garibaldi col grado di sottotenente.
Il 25 giugno 1866 due compagnie dei bersaglieri volontari e una compagnia del 2° reggimento attaccarono una divisione di fanti austriaci presso Ponte Caffaro. Fu in quel combattimento che accadde lo storico episodio che valse a Titta i complimenti di Garibaldi che si congratulò con lui chiamandolo “prode fra i prodi”.
Ma in un primo momento giunsero al generale capo di Stato Maggiore Guastalla dispacci dagli austriaci che accusavano un ufficiale dei bersaglieri di aver infierito sul Capitano Gustavo Stamps Rendel ferito a terra uccidendolo. Guastalla chiese spiegazioni a Titta che era convalescente a Cassano d’Adda il quale rispose raccontando in prima persona l’accaduto e producendo un documento che attestava la propria onorabilità.

...Unisco alla presente la dichiarazione del capitano Ruzizka Rodolfo, mio avversario, ricevuta dall’interprete giurato avv. Pietro Pallavicini, legalizzata dall’Autorità Municipale di Brescia.
Brescia 8 agosto 1866
Dietro invito fattomi dall’Autorità Municipale di qui, io sottoscritto interprete giurato di lingua tedesca mi sono reso in compagnia del signor sottotenente Gio. Batta Cella del 2° battaglione bersaglieri volontari italiani, all’ospitale di S. Chiara per sentire il ferito capitano austriaco Rodolfo Ruzizka dell’11° Regg.o fanteria Principe di Sassonia, ed avere sue dichiarazioni intorno al combattimento avvenuto al Caffaro nel giorno 25 giugno a cui prese parte il sig. Cella.
Il sig. Capitano ha formalmente, sulla sua parola d’onore, parlandomi in lingua tedesca, dichiarato che sul finire del combattimento del giorno 25 al Caffaro venne assalito dal suddetto sott.te Cella con circa 15 volontari, e dopo aver riportato diverse ferite, e sempre difendendosi, cadde a terra avendo prima ferito il suo avversario Cella, il quale cessò da ogni atto ostile tostoché lo vide steso al suolo.
Lo stesso capitano ha dichiarato altresì, che non conosce per nulla un capitano chiamato Gustavo Stamps Rendel della Compagnia Cacciatori di Innsbruck, mentre l’altro capitano di una compagnia di volontari tirolesi, che serviva da sostegno alla sua, si chiamava Conte di Vittenburg.
Tanto ha dichiarato il sig. Capitano Rodolfo Ruzizka per la pura verità, essendo in via di guarigione e di buona salute, sebbene ancora degente a letto.
In fede di quanto sopra io sono firmato avv. Pietro Pallavicini (interprete giurato)
Come potrà ben osservare questo onorevole comando, da questa dichiarazione risulta:
I° che il mio avversario del giorno 25 giugno al Caffaro non si chiama e non è quello di cui si lagna il comando generale Austriaco;
II° che il mio avversario capitano Rodolfo Ruzizka non conosce per nulla che in quel combattimento c’entrasse certo Gustavo Stamps Rendel sul quale ora si muoverebbe reclamo;
III° infine che lo stesso Ruzizka venne trattato come si usa in guerra fra nazioni civili.
Sono convinto che dal rapporto ufficiale e da tutte le relazioni su quel combattimento non risulti che altro ufficiale del 2° battaglione bersaglieri abbia commesso l’enormità assurda e calunniatrice. Non so poi qual fede si debba prestare a testimoni che ci avevano volte le terga.
Dalle concordi testimonianze di quanti si trovarono presenti a quella mischia e di cui ricordo i nomi degli ufficiali Cantoni, del bersagliere Domenico Barnaba e del bersagliere Vianello Luigi, dovrà risultare come appena caduto il capitano Ruzizka io dovessi volgermi indietro onde difendermi da un caporale Tromba nemico, che colla daga mi aveva già inferto due ferite alla testa; come sbarazzatomi di questo, assalissi un sergente nemico che lottava con un nostro bersagliere, di cui non posso sapere il nome; come, giunto io sopra al sergente nemico, questi cadesse travolgendo me pure; come rialzatomi ed atteggiandomi per riprendere la lotta, io m’accorgessi insieme ad altri bersaglieri li vicini che il sergente era morto per un colpo da fuoco, non so invero da che parte arrivato.
Questo è quanto io mi ricordo di quell’attacco alla baionetta e quanto dovrà risultare, ne son certo, dalle concordi testimonianze.
È ben vero che il capitano Ruzizka si lamenta di aver ricevuto dei colpi di baionetta dopo essere caduto in terra ma dovendo prestar fede alle sue asserzioni bisognerebbe del pari tenere a calcolo quello che realmente avvenne dopo la di lui caduta e che mi venne concordemente riferito da diversi; cioè il capitano avrebbe tentato d’impugnare contro me il suo revolver, avrebbe menato un potente fendente ad un cane buldoch dell’ufficiale Grassi del 2° regg.to, che avealo addentato per una gamba, infine avrebbe fatto le maraviglie vedendosi trasportare all’ambulanza, ritenendo per certo che, sebbene prigioniero, verrebbe fucilato: essendo voce diffusa nella truppa austriaca, che i volontari italiani non davano quartiere al nemico preso.
Tutto ciò induce a credere che il capitano Ruzizka si abbia difeso disperatamente anche dopo caduto in terra, e quindi sarebbero per così dire giustificati i colpi di baionetta da lui ricevuti. Intorno a questo incidente io non posso aggiungere la mia testimonianza essendo stato la quel frattempo impegnato in altra lotta.
Antonio Andreuzzi capitano medico dei bersaglieri visitò Titta in ospedale a Salò il 3 luglio e scrisse al genero Nicolò Passudetti a Navarons:
Oggi ho visitato il valoroso nostro Cella ed ho colto il momento di trovarmi presente alla medicatura di questa mattina, come desiderava. Egli ha tre ferite da taglio. La prima è posta alla sommità dell’omero sinistro e forma un lembo di forma triangolare che comprende gran parte del muscolo deltoide, della circonferenza di oltre tre pollici; fu l’effetto di un colpo di sciabola vibrato con violenza dal basso all’alto verso l’acromio [ acròmion = protuberanza della scapola che si articola con la clavicola]. Fu tentata la riunione per prima intenzione, ma le contrazioni del deltoide delusero le speranze del chirurgo, e rotti i punti di cucitura, ora progredisce con lodevole processo per seconda intenzione, e calcolo che entro un mese sarà perfettamente cicatrizzata.
Di quelle della testa la prima, che trovasi alla sommità è ormai cicatrizzata; non così la seconda che è posta in direzione verticale sopra la regione destra occipitale, lunga oltre due pollici e profonda fino al cranio con interessamento del periostio; ma questa pure trovasi in istato di confortante suppurazione, e non presentando il ferito nessun fenomeno cerebrale morboso ritengo che compierà la desiderata cicatrizzazione contemporaneamente a quella del deltoide, in modo che il vostro Titta sarà ridonato alla patria, agll’ amici ed al nostro Friuli che può andare superbo di tali giovani. Egli è di buon umore, senza febbre, con appetito; e coi conforti di Garibaldi e di Cairoli che lo visitò anche ieri sera, condizioni le più favorevoli alla rapida guarigione.
Mi sono dilungato sopra questo argomento perché so che interessa tutti gll’ amici. Egli stesso mi confessò poi, che, se Meni Barnaba non atterrava con rapido e violento colpo di calcio di fucile uno dei suoi assalitori a tergo, mentre lottava di fronte coll’avversario capitano, egli sarebbe stato perduto. Titta, dopo l’annessione del Veneto e parte del Friuli al Regno d’Italia, rientrò a Udine deciso a giovare alla rinascita della sua terra. Si scontrò subito con problemi finanziari perché gli austriaci per ritorsione nei suoi confronti alienarono i beni immobili della famiglia Cella, riducendola quasi sul lastrico. Riuscì ad ottenere un indennizzo grazie all’interessamento del Commissario Governativo Quintino Sella, inviato in Friuli per pilotare la nascita della nuova provincia in seno al Regno d’Italia.
Fu durante la visita di Garibaldi a Udine il primo di marzo del 1867 che Titta fu messo al corrente e cooptato all’impresa che il Partito d’Azione stava preparando contro lo Stato Pontificio. L’azione garibaldina si basava su una promessa insurrezione dei romani aiutata dall’ingresso di armi e da ardite azioni dimostrative, mentre colonne armate di volontari si dirigevano su Roma al comando di Garibaldi. Cella fu inviato a Roma per un colpo di mano a Porta S. Paolo, con lui 15 uomini e tra questi i friulani Andreuzzi Silvio di Navarons, Berghinz Augusto, Facci Carlo di Udine, Bonini Pietro di Palmanova, Marioni Gio. Batta da Forni di Sotto, Marzuttini Carlo di Spilimbergo rimasto ferito nell’operazione, 3 lombardi e 6 romani (dei cento promessi). I friulani e i lombardi erano armati con revolver; dei romani 5 erano armati di piccone e il sesto, uno storpio, reggeva un rudimentale marchingegno, contenente materiale infiammabile per incendiare la porta. Tardando l’arrivo dei carri delle armi e delle munizioni, dopo ore di inutile attesa, Cella decise di passare ugualmente all’azione. Andreuzzi e Marioni piombarono sulla sentinella e la disarmarono, subito seguiti dagli altri volontari che catturarono 6 papalini. Poco dopo, su indicazione di un soldato pontificio preso prigioniero, attaccarono un altro posto di guardia e, nel breve scontro, due papalini e un volontario rimasero feriti. Visto che la sperata insurrezione non si manifestava Titta e i suoi compagni, dopo una lunga e rischiosa marcia attraverso Frascati e Tivoli, riuscirono ad unirsi alle forze di Garibaldi nei pressi di Monterotondo.
Garibaldi, saputo del fatto di Porta S. Paolo, nominò Titta maggiore e lo pose al comando del 6° battaglione della seconda colonna comandata da Gustavo Frigyesi.
Dopo la gloriosa impresa di Monterotondo fu protagonista nella fatale giornata di Mentana (3 novembre 1872) durante la quale oppose coi suoi uomini estrema resistenza a villa Santucci attaccato dai francesi con i micidiali nuovi fucili a retrocarica. Questa fu l’ultima sua impresa guerresca ed anche l’ultima azione garibaldina per l’unità italiana: Roma sarà in seguito conquistata dai bersaglieri piemontesi, quando la Francia toglierà il suo appoggio allo Stato Pontificio.

Titta rientrò definitivamente ad Udine della quale città divenne consigliere comunale; godeva di larga fama in Friuli ed era apprezzato e benvoluto da tutti per i suoi trascorsi eroici e per il suo carattere mite e generoso. Politicamente era esponente della sinistra radicale garibaldina e anticlericale che non accettava i confini del Friuli venuti dagli accordi di Cormons e propugnava la liberazione dei territori della Venezia Giulia e dell’Istria. I patrioti giuliani, triestini e dalmati ebbero voce in Cella che fu nominato loro presidente onorario.
In mezzo alle cure della famiglia, degli affari e delle incombenze delle cariche pubbliche, ei non dimenticava la Patria: sapeva che a renderla sicura, grande e rispettata era mestieri che soldato straniero non imperasse su terre italiane per origine, per leggi geografiche, per costumi, per sentimenti.
E l’entusiasmo del passato si ridestava nell’opera febbrile da esso dedicata in codesto novello periodo di attività patriottica: e lo sguardo suo calmo e l’attitudine seria e pensosa in lui abituali mutavano d’un tratto, e s’accendeva il suo volto a far intravedere forti risoluzioni quando sembravagli – o dagli avvenimenti politici gli veniva indicata – prossima l’ora della lotta per il riscatto delle province, ove ancora domina l’austriaca prepotenza.

Ma le pulsioni antiaustriache di Cella erano destinate ad essere deluse dalla politica sabauda che intendeva mantenere lo status – quo e lavorava ad una pace durevole con l’Austria, che sfociò infine nel 1880 con il patto della Triplice alleanza.
Ebbe dal Governo l’onorificenza di Cavaliere della Corona d’Italia ma quando seppe che lo stesso onore venne attribuito al vescovo di Udine restituì a Sella l’insegna e il decreto.

Il clima politico in Friuli non era proprio tranquillo soffrendo in quegli anni il cambio di amministrazione che agli occhi dei più radicali pareva più una trasformazione che un cambiamento. Non mancavano tumulti organizzati dalla sinistra contro le nuove tassazioni imposte dall’Italia e contro il clero che ritrovava un ruolo di riferimento per le masse contadine, in contrapposizione agli ideali socialisteggianti e postmazziniani.
A Titta non piaceva questo scontro e cercava in tutti i modi di calmare gli animi, per il bene della Patria, divenendo pedina importante per il Commissario Governativo Sella come dimostra la seguente lettera:

Io fui più che dolente di non vederla prima della mia partenza, giacché avevo vivo desiderio di parlarle. Ma dovetti passare quasi tutte al lavoro le ultime cinque notti che fui a Udine e non ebbi un momento di pregarla per una conferenza.
Io volevo avere con lei un discorso intorno alla attuale situazione di Udine. Vi possono essere tra di noi delle divergenze, ma io so che ella vuole il progresso, e ricordo troppo bene la dichiarazione esplicita di fede monarchica che ella mi fece in una circostanza che forse ella non scordò. Ora siccome malgrado le molte sobillazioni di parecchi suoi nemici io ho fede intiera nella sua lealtà e sono profondamente convinto che ella è incapace di dire diversamente da ciò che pensa ed opera, ne concludo che abbiamo comunanza di propositi essenziali, e che se divergenze vi sono o vertono sopra cose di un momento, o consistono piuttosto nell’apprezzamento che si possa fare di tale o tall’altro individuo.
Ciò essendo e potendo ella influire non poco presso i suoi amici personali e politici, parmi opera di buon cittadino di invitarla a considerare l’andamento delle cose in Udine.
Seppi degli sfregi fatti alle porte di Giacomelli, di Tonutti, di Moretti. Ella vide la protesta Rizzani e Lucis contro il governo (...)
Tutti questi sono evidenti sintomi che o vi ha chi per fini reconditi di repubblica eccita alla perturbazione della quiete pubblica o vi sono uomini inconsulti i quali credono giovare alla libertà continuando oggi a trattare il governo italiano ed i suoi aderenti come si trattava il governo austriaco e peggio di quello che si trattassero gli aderenti suoi nella città di Udine.
Io temo grandemente che qualche birbante a fini reconditi conduci le file, e che gli vadano dietro alcuni illusi, ed alcuni tristi all’occorrenza delinquenti comuni.
Ora se si continua per questa via, e se dagli sfregi alle porte si passa agli sfregi contro le persone, od alle minacce cosa succederà? L’evidente per me che non si otterrà altro risultato che quello di far tornare a galla i codini. Si rivedranno nei pubblici consigli i fautori dell’Austria e del clero, sarà osteggiata ogni misura tendente al progresso ed alla cultura delle masse.

Vediamo da questa lettera che pur di giovare alla sua terra, sempre contro l’odiato austriaco, giunge a dei compromessi personali fino a dichiararsi fedele alla monarchia: seguirà, in parte, la trasformazione politica dei mazziniani come Crispi, Cairoli, De Pretis, abbandonando l’idea di una repubblica italiana, per una tanto sospirata pace e concordia nazionale.
Per una persona retta come lui stride il fatto che favorì gli amici: in particolare nel caldeggiare le candidature di Billia e Verzegnassi alle elezioni del ’66, friulani ma abitanti a Milano e praticamente sconosciuti nei collegi in cui si candidarono. Si lascia inoltre convincere a sostenere il lombardo Francesco Cucchi trovandogli posto nel collegio elettorale di San Daniele:
E vorrei che si potesse [rivolgere] un grato ricordo al Generale Garibaldi, col far riuscire in qualche collegio Francesco Cucchi simpatico [...] e intelligente giustamente caro al Generale.
È necessario però ricordare che a quell’epoca la raccomandazione era istituto usuale e non esecrabile, utilizzato largamente.

Solo molti anni più tardi, nel 1874, si proporrà personalmente candidato al parlamento con l’appoggio esplicito di Garibaldi e Benedetto Cairoli.
Il suo manifesto elettorale ci parla di una persona votata ancora agli ideali mazziniani:

Se credete che nel Parlamento come oggi è costituito si possa essere utili al Paese, se credete non sia assolutamente necessario a formare un buon Deputato essere un famoso statista, oratore, finanziere, generale o scienziato; ma che sia invece l’onestà, il carattere fermo, il patriottismo, il sacrificio del proprio ben’essere individuale al ben’essere generale, la devozione ai principi professati, la disciplina alle leggi se anche non ottime, con fermo proposito d’immegliamento, [...] anch’io potrei essere il vostro Deputato.
Ma le certezze in Titta andranno affievolendosi, vuoi per la sconfitta elettorale che per problemi economici. Molto grave risulterà un suo investimento per mettere in piedi una fabbrica di metri:
...a rendere più difficili le sue condizioni economiche negli ultimi tempi, concorsero varie cause di affari malandati e di abusi frequenti della sua buona fede.
Titta si accorse, piano piano, che la realtà era drammaticamente diversa da quella che aveva sognato e alla quale aveva dedicato la sua gioventù. Si trovò sempre più spesso a dover mercanteggiare i suoi principi morali, tirato per la giacca da amici o presunti tali che approfittavano della sua posizione per raggiungere i propri scopi. Egli si scoprì spaesato, fuori luogo. A concorrere a questo smarrimento non solo le sconfitte politiche, gli abusi alla sua buona fede, ma anche, come abbiamo accennato, le trattative dei governi, succedutisi in quegli anni, di destra e di sinistra, con l’acerrimo nemico austriaco; il tardare di risposte efficaci alla grave crisi agricola – industriale che attanagliava a quei tempi il Friuli, con conseguente massiccia emigrazione; le ingiustizie, il clientelismo, l’arrivismo, il moderno fariseicume che solo piega le ginocchia al dio dell’oro, ai mentiti orpelli, allo sbrigliato sforzo della riuscita a qualunque costo.
Luigi Centazzo, amico di Visinale di Pasiano scrisse un’ode a Cella dopo la sua morte e da alcuni di quei versi si comprende che a lungo Titta meditò il suo gesto:


E mi dicesti un giorno
Scherzosamente: “Recita alcun verso
Che mi parli di morte!” Io non fermai,
Stolto!, il pensiero e il cor sul vaticino
Allor tant’era lontano dal vero
E che il fatal consiglio in te movesse
Provocato dal cruccio della vita
E versi recitai d’autore ignoto:
M’arde il cervello, e dir che un colpo solo
Basterebbe a freddarlo eternamente.
Ed ogni volta la lugubre nota
Ripetevi in vedermi: Un colpo solo
Basterebbe a freddarlo eternamente...
Segno funesto ch’oggi solo avverto
D’un’alma trangosciata!

Dal Giornale di Udine del 17 novembre 1789:

Pur ieri più d’uno l’avea incontrato del suo solito umore sereno e franco senza alcun segno di turbamento. Sappiamo che Egli lasciò parecchie lettere ad amici e parenti, e che si fece condurre da un brumista fra le quattro e le cinque verso il cimitero, e che alla metà del viale si tirò due colpi di rivoltella che lo lasciarono semivivo. Poco dopo Egli spirò all’ospitale, dove venne condotto.
Chiudiamo queste note biografiche di Giovanbattista Cella con un brano di un suo componimento poetico dedicato al suo amato Friuli:

Madre di prodi, a gentilezza nido,
Io ti saluto, o Friulana terra!
Dall’Alpi, d’Adria al lido
Dove il seno d’Italia si disserra,
Ospite bella, al vïator cortese
Dischiudi il bel paese,
E come eletta figlia,
Gioja di sua famiglia,
Stai della casa all’onoranze intesa;
Onde dai freddi lidi il viaggiatore
Movendo il piè di sorpresa in sorpresa,
Ai rai del tuo splendore
Sclama, dal cor sciogliendoti un tributo:
Terra lieta e cortese, io ti saluto.
Oh! Come è dolce, se il Cimon n’estolle,
Il tuo piano mirar che al mar dechina,
Veder le colte zolle,
E i lati campi e l’amena collina;
Guardar, quanto può correr l’occhio, i mille
Sparsi castelli e ville,
Dove un popolo industre
Fugò l’onda palustre,
L’aër fe’ puro e il suol fecondo ed ebbe
Prole gagliarda, cui la tarda sera
Vede curvata sul lavor, ma crebbe
Onestamente altera
E forte e tal che fu temuta, e spesso
Fe’ gli oppressori impallidir l’oppresso.


La seconda banda dei Cacciatori delle Alpi

Riprendiamo ora la trattazione della formazione e dei movimenti della banda messa in piedi a Majano da G.B. Cella, rientrato da Milano a fine ottobre 1864 ed incaricato dal Comitato Unitario di portare aiuto ad Andreuzzi. Abbiamo visto che Cella incontra a Valvasone Vico Michielini, lo rifornisce di denari e gli affida l’ambascia per il dottor Andreuzzi che molti garibaldini stanno per entrare in Trentino, che egli stesso procurerà di far saltare il ponte di Casarsa, muoverà con una banda e ne solleciterà delle altre. Cella farà il possibile per convincere i gruppi di patrioti che erano preparati per la mossa ma si scontra con la stessa contrarietà ad agire che egli stesso aveva appoggiato poche settimane prima. Il gruppo di Codroipo, capitanato dal Zuzzi, non mette in atto la distruzione del ponte sul Tagliamento tra Casarsa e Codroipo. Il gruppo di Cividale viene contattato come confida lo stesso Cella a Francesco Colloredo:
Diceva il Cella che armati molti giovani ci si doveva congiungersi con Garibaldi che veniva dal Piemonte e che ci soccorrerebbe una banda proveniente da Cividale.
Ma la banda di Cividale non darà segni d’esistenza. Cella comunque cercherà l’appoggio di tutti i patrioti e forse riceve molte rassicurazioni perché si sbilancia con i componenti della sua banda; a Valentino De Mezzo dice:
Devi venir con noi col fucile in ispalla perché in questa notte in tutti i paesi scoppia la rivoluzione.
A Veritti e a Battigello che gli chiedevano se fossero arrivati anche patrioti da Udine, Cella rispose di no perché servivano in città per far saltare in aria la Polizia, azione prevista per la notte del 6 novembre.
Soltanto Ergisto Bezzi mantenne l’impegno preso con Cella a Milano e tentò di penetrare in Trentino con 150 volontari ma fu fermato in Val Trompia dai carabinieri italiani, arrestato e i volontari dispersi.
Cella trova terreno fertile a San Daniele dove gli attivissimi Asquini e Ongaro per ben due volte furono sul punto di muovere i propri uomini, una prima volta il 23 ottobre, la domenica successiva all’azione della banda Andreuzzi, e poi il giorno dopo radunandosi al bosco di Susans. In entrambe le occasioni furono probabilmente le titubanze del Beltrame a far fallire le operazioni; ricordiamo che nella riunione di Villanova, menzionata da Andreuzzi nelle sue Memorie, Beltrame votò contro l’inizio dell’insurrezione allineandosi al parere di Cella. Ma l’irruente ritorno di Cella da Milano con nuovi ordini fece ricredere Beltrame.
Anche Valentino Asquini, oltre a reclutare molti giovani, cerca accordi con altri patrioti sia a Venzone che a Tolmezzo; lo si evince dal racconto di Anselmo Cattarin:
Nel giorno 6 novembre, domenica, trovavami sulla piazza di Majano, quando Valentino Asquini accennandomi colla mano mi invitava ad avvicinarlo e mi propose di accompagnarlo in una gita che aveva a fare in carretta. Accettato l’invito ci portammo alla di lui abitazione e salito nel suo ruotabile partimmo da Majano che potevano essere le 9 antimeridiane. Arrivati in Rivoli Bianchi [località tra Ospedaletto e Venzone dove sbocca il Rio Pozzolons] incontrammo la Posta proveniente da Tolmezzo e due uomini dai 30 ai 40 anni, vestiti all’artigiana, smontarono dalla carrozza e si abboccarono coll’Asquini che parlò loro sottovoce ed all’orecchio, e tutti e due si diressero a piedi all’Ospedaletto. Giunti a Venzone, passando presso un negozio di commestibili, l’Asquini accennò ad un giovane sui 24 anni circa che vi si trovava, a venire a noi, ed infatti quel tale ci raggiunse all’osteria della Posta ove ci riducemmo col ruotabile. L’Asquini si abboccò con quel giovane senza che io potessi capire il tenore del loro discorso e se ne partì con lui. Finalmente, dopo il mezzogiorno, rientrato nella locanda l’Asquini, salimmo in carretta e partimmo alla volta di Majano. Giunti all’Ospedaletto ci fermammo alla prima osteria a mano dritta di chi viene da Venzone e ci ritrovammo i due individui che avevamo incontrato nell’andata e che erano discesi dalla carrozza della Posta e l’Asquini si abboccò segretamente con quei due, e dopo aver bevuto noi partimmo per casa ed essi dissero che ritornavano tosto alla loro casa, non so però dove.
Probabilmente i due arrivati con la carrozza postale erano da Tolmezzo dove esisteva un gruppo di cospiratori. A conferma di ciò abbiamo anche l’invio di un messaggio da parte di Asquini da Dierico il giorno 8 novembre, per mano di Giovanni Dereani, da consegnarsi a Pietro Ciani o al dottor Spangaro o a certo De Marchi, tutti del comitato di Tolmezzo.
Il giovane incontrato a Venzone è un certo Manona, giovane di ricca famiglia; aveva l’incarico di trovare giovani per la banda Asquini-Cella e somministrare mezzi opportuni a tal scopo, ed anzi doveva egli pure venire colla banda, ma se ne poté esimere colla scusa di essere ammalato, e da quanto poi seppi non avrebbe neppure arruolato alcuno.
Cella doveva fare molto affidamento sui giovani di Venzone e Tolmezzo tanto che fu in dubbio, nel sabato 5, di avere troppo poche armi:
...sentivo Asquini e Cella discutere se dovevano o no mandare a prendere le armi a Codroipo, al che il Zucchiati [carradore di S. Tomaso] rispondeva di non potersi prestare sul momento per avere i cavalli stanchi. Allora progettarono di mandare a prendere i cavalli del Signor Perosa di Villanova per servirsene a questo scopo, ma riflettendo che non si poteva fare in tempo questo viaggio, rinunciarono a questa idea.

Valentino Asquini
Poche sono le informazioni che abbiamo del vice comandante della banda di Majano. Stranamente nei Registri parrocchiali della popolazione, custoditi in Municipio a Majano e consultati da Aldo Mansutti, si trovano delle note riguardanti i fratelli ma nulla su Valentino e il papà Domenico.
Valentino, classe 1832, nacque in Majano quinto figlio di Domenico Asquini commerciante di legnami. Gli altri fratelli sono nell’ordine d’età: Canciano (1-3-1824), Francesco, avvocato (5-3-1833), Luigi (1825 – 1905) e Daniele (18-7-1843) che lavorò come segretario comunale nei paesi di Barcis e Passariano. Ebbe anche una sorella, Maria (1824 – 1899) che sposò Bortolotti Valentino, parente del prete proprietario dell’uccellanda.
Francesco e Daniele, dopo gli studi emigrarono in Lombardia dove lavorarono come impiegati in quel di Lodi. Proprio la presenza dei fratelli in Italia permise a Valentino di entrare in contatto con il mondo dell’emigrazione veneta ed in particolare con tutti quelli che operavano per i progetti mazziniani e garibaldini di unificazione della Patria. Il fratello Francesco raggiunse i “Mille” in Sicilia con i rinforzi della spedizione guidata da Giacomo Medici.
Sull’onda dell’entusiasmo patriottico anche Valentino partecipò all’impresa garibaldina finita tragicamente in Aspromonte nell’agosto del 1862, nonostante avesse un figlio di un anno e la moglie di nuovo incinta. Nel corso di questa avventura conosce Cella, Francesco Rizzani e Silvio Andreuzzi che saranno, due anni dopo, protagonisti con lui dell’insurrezione friulana. Ricordiamo che il Rizzani era l’ufficiale d’ordinanza di Garibaldi e che, quando il Generale fu ferito, insieme ad Enrico Cairoli, lo trasportarono al piede dell’albero storico, aiutati da Placido Fabris di Treviso che lo teneva per le gambe.
Rientrato a Majano fu messo sotto osservazione dalla polizia politica austriaca che lo sospettava di favorire l’emigrazione clandestina (esame di V. Asquini presso la Pretura di San Daniele 26 maggio 1864, busta n° 3, fondo Procura della Repubblica, Processi Politici vari anno 1865, Archivio di Stato di Venezia).
L’accusa nasce dalla cattura in fase di espatrio di Giuseppe Venuti da San Daniele figlio di Domenico commerciante di granaglie. Il Venuti fa i nomi di Asquini e del medico condotto di San Daniele Antonio Andreuzzi. Gli inquirenti, dopo aver esaminato i due accusati non trovano prove a loro carico ma rimangono convinti della pericolosità dell’Asquini in quanto esagitato seguace di Garibaldi (nota della Pretura di San Daniele in accompagnamento agli esami di Asquini e Andreuzzi, alla Commissione del Tribunale di Udine, 29 maggio 1864, busta n° 3, fondo Procura della Repubblica, Processi Politici vari anno 1865, Archivio di Stato di Venezia).
Non rilevano invece alcun coinvolgimento di Andreuzzi che conosce Asquini solo per motivi professionali. È importante notare che tutto questo accade mentre i due sono attivamente impegnati nei preparativi insurrezionali. Il giudizio degli austriaci su Andreuzzi cambierà radicalmente di lì a qualche mese tanto che lo si definirà poi il “famigerato dottor Andreuzzi”.
Valentino lavorò nell’azienda paterna e per le sue incombenze si recava spesso in Carnia dove aveva molte conoscenze e si avvaleva di questo o quello per il taglio dei boschi o per il trasporto del legname. A Dierico, in particolare, conosceva Giovanni Dereani detto Mandul dal quale si presentò la sera del 7 novembre 1864:
nella sera del 7 novembre,aperta la porta dalla mia figlia novenne, dietro richiamo, entrarono nella mia cucina dove mi trovava con mia moglie due individui vestiti civilmente ed inermi [privi di armi] uno dei quali chiamavami per nome. Meravigliato che egli mi conoscesse, dietro domanda qualificossi per Valentino Asquini ed allora mi rammentai che prima del 1852, per dieci anni avea lavorato alle dipendenze di suo padre e suo zio. L’altro individuo venni a sapere nell’indomani che fosse certo Cella (dall’esame di Giovanni Dereani, Castello di Udine, 2 dicembre 1864, busta n° 6, fondo Procura della Repubblica, Processi Politici vari anno 1865, Archivio di Stato di Venezia).
Valentino seguì poi l’amico Cella nella guerra del ’66 e rientrò in Friuli dopo la liberazione.

I racconti alla giustizia dei componenti della banda Asquini - Cella su come fossero stati arruolati sono vari e fantasiosi per cercare di sminuire le proprie responsabilità. C’è chi dice di essere stato invitato ad un ballo da uno sconosciuto sulla piazza di San Daniele:

Trovandomi nelle 6 e mezza pomeridiane del giorno 6 novembre nella piazza di San Daniele mi si avvicinò uno sconosciuto dicendomi che a Majano eravi ballo, invitandomi a prender parte ed a recarmi colà che mi sarei molto divertito. Siccome ero alquanto ubriaco per avere in quel dopopranzo bevuto nella osteria di Della Bella e al Restoratore, in compagnia di Vincenzo Peverini e Giovanni Colutta, accettai l’invito e mentre mi dirigeva da solo alla volta di Majano, ancora sulla piazza, rinvenni quei miei compagni e messili a parte del mio progetto mi si unirono per recarsi anche essi a Majano, dicendosi essi pure invitati da uno sconosciuto.
Chi sostiene che non era capace di intendere e volere:
Una domenica, e sembrami fosse il 6 di novembre, trovandomi sulle 7 pomeridiane nella piazza di San Daniele che appena poteva reggermi in piedi per il vino bevuto all’osteria di Domenico Peressoni, quando giunto barcollando d’innanzi il caffè mi avvicinarono Pietro Beltrame, Luigi Ongaro ed un altro sconosciuto e i primi due presomi ognuno per un braccio mi condussero a Majano a piedi.
Altri dissero di essere stati invitati a cena all’osteria Schiratti, alcuni già vi si trovavano a giocare e bere, altri ancora dichiararono di essere stati abbindolati con offerte di lavoro. Queste affermazioni tendenti a discolparsi sono comuni anche ai componenti delle bande del bellunese e della banda del dottor Andreuzzi. Alcuni autori che si sono occupati del tentativo insurrezionale del 1864 hanno sentenziato, su tali presupposti, che questo fu un Moto organizzato da pochi e male, con gli arruolamenti eseguiti forzatamente o con l’inganno a danno di poveracci ignoranti.
Basterebbe per contraddire questa affermazione chiedersi come mai allora tutti questi poveri, innocenti, arruolati per forza, furono condannati a pene severissime. In questa esposizione, dunque, mettiamo in risalto che le modalità di reclutamento non ci sono note, o le possiamo velatamente intuire: sappiamo solo quello che dissero gli arruolati alle autorità, ribadendo che essi tendevano a discolparsi. Su questo argomento, per fare un esempio, possiamo mettere in risalto le contrapposte versioni di Pietro Battigello e Luigi Maule.
Battigello disse di essere stato invitato a cena da Asquini con altri in occasione della festa degli artieri di San Daniele. Luigi Maule aggregatosi a Battigello, Veritti ed Angelo Fontanelli che si dirigevano a Majano dichiara invece:
... il Battigello diceva che saressimo divenuti tutti tanti Signori e che si doveva andare a vincere o morire e che si sarebbero ovunque derubate le casse.
Da questo e da altri esempi, che non è qui il caso di esporre per non annoiare il lettore, risulta evidente la consapevolezza degli arruolati.
Pietro Beltrame era il depositario dei fucili che li teneva nascosti a Ragogna, il suo paese. Furono trasportati a Majano, in località Susenis, in un capanno d’uccellanda di proprietà del prete Francesco Bortolotti. Il trasporto avvenne il 5 novembre a cura di un certo Zucchiati, carradore:
Le armi furono portate al casotto sopra un carro dalla parte del borgo della Madonna di Villa [ora Madonna di strada] in San Daniele e mentre passavano per il borgo si ruppe e cadde una tavola del cassone e che essendosi avvicinato accidentalmente il caporale dei gendarmi di legione di San Daniele, il Beltrame che seguiva il carro, onde distrarre del medesimo l’attenzione gli offrì una presa di tabacco e lo trasse in disparte cominciando secolui un discorso.
Il carrettiere Zucchiati di S. Tomaso, di cui non so il nome, essendo venuto nella notte del sabato 5 novembre a condurmi armi all’uccellanda di Don Bortolotti, sopra una carrettina, mi palesò che le aveva levate a Ragogna dalla casa o stalla di Pietro Beltrame.
I sacchi con le camice rosse, le scarpe e le cassette di munizioni furono prelevate a Udine:
Quelle cassette erano state là condotte nel giorno antecedente [5 novembre] da Luigi Stoppa [Carnielutti], come egli stesso mi raccontava dicendo di averle levate a Udine senza dirmi da chi, e dove.
Qualcosa di più su questa commissione la veniamo a sapere da G.B. Fontanelli che ricorda una vanteria confidatagli da Luigi Carnielutti:
...furono condotte a Majano, nell’uccellanda del prete Bortolotti, nel sabato 5 novembre da Luigi Carnielutti di Pers, quaranta camice rosse, altrettanti sacco-pani e più di quaranta paia di scarpe. Egli giunse nel far della sera con questi effetti che aveva caricati sopra una timonella scoperta, il tutto era contenuto in tre sacchi distinti di tela grezza, la timonella era tirata da una cavalla assai magra; il Carnielutti mi raccontava che questi oggetti era venuto a levarli a Udine in quel sabato,verso le due o tre pomeridiane, dalla casa di un certo Braida che resta presso un luogo dove monta una sentinella, e che li aveva caricati sulla pubblica strada e sotto gli occhi della sentinella.
Sappiamo che Cella era a Majano il sabato 5 novembre:
...nel sabato notte, sulle ore 11, proveniente da Cimano entrai in S. Daniele per andare a trovare mio fratello. In questa circostanza io vidi venir contro di me per la pubblica strada una timonella sulla quale era Valentino Asquini da Majano ed un altro che conosco per suo parente, tale Anselmo Cattarin. Appena che l’Asquini mi ebbe veduto mi domandò dove andava, e m’invitò a recarmi con lui facendomi montare sulla sua timonella e così con lui e il suo compagno si arrivò all’osteria di Valentino Schiratti che rimane al principio del paese di Majano. Entrammo tutti e tre nella medesima e si passò in una stanza superiore dove si trovò un tal Giacomo Screm negoziante di legnami di Osoppo che dormiva sopra una panca. Non appena eravamo entrati in quella stanza comparve anche Gio. Battista Cella di Udine che si mise in nostra compagnia. Si rimase in quell’osteria fino al mattino e in questo frattempo rimarcai che l’Asquini, il suo parente, il Cella ed anche lo Screm, che si era svegliato, discorrevano fra di loro andando dentro e fuori della stanza per poter liberamente parlare senza essere da me ascoltati.
Durante la notte arrivano i fucili trasportati dal carradore Zucchiati già menzionato e vengono riposti nel casotto d’uccellanda del prete Bortolotti. Il mattino successivo Asquini porta all’uccellanda Colloredo Francesco di S. Tomaso:
...quando fummo entro comparve un signore, più tardi conosciuto per certo Cella di Udine, e mi venne ingiunto di slegare dei fasci di fucili, credo da 5 l’uno, e siccome erani irruginiti, Asquini andò a prendere dell’oglio e ritornato con una fiaschetta e con certo Gio. Batta, disertore di S. Daniele, fummo incaricati di pulire quei fucili.
A cominciare dalle 7,30 pomeridiane iniziano ad arrivare all’osteria Schiratti gli arruolati a gruppetti; alcuni di Majano erano all’osteria a bere e giocare fin dal primo pomeriggio. Da S. Daniele un primo gruppo composto da Volpini, Peverini e Colutta; un secondo, Battigello, Veritti, Angelo Fontanelli e Luigi Maule, arriva alle 8,30; alle 9 giungono infine Rassatti, Ongaro, Bortoluzzi e Beltrame. Da Pers arrivano i due fratelli Carnielutti, Luigi e Ferdinando che portano all’uccellanda i generi di vestiario e le munizioni. Altri ancora giungono alla spicciolata.
Dopo aver tutti mangiato e bevuto si recano all’uccellanda dove si armano e vestono:
Il capitano e l’Asquini entrarono assieme a Pietro Beltrame nel casotto e di la asportarono delle camice rosse, dei bonetti alla piemontese, dei sacchi di pelle, dei fucili e delle fiasche di latta da campo. Ognuno per ordine di quei tre dovette indossare una camicia rossa, coprirsi di uno di quei bonetti, prendere un sacco di pelle ed una fiasca, nonché un fucile con bajonetta al quale dovemmo applicare la correggia a ciò destinata e che trovavasi nei sacchi.
Ritornati all’osteria, in piccoli gruppi, si recano alle case di alcuni carradori di Majano a requisire carri e cavalli.
Io con altri due di Majano e uno di S. Tomaso ci recammo dal molinaio detto Ballin e fu costretto a somministrarci un carro.
Canciano Asquini con uno schioppo da caccia ricevette ordine dal fratello di andare dai carrettieri del paese e di costringerli a venire presso l’osteria.
Credo che i ruotabili fossero stati requisiti per forza dietro ordine dell’Asquini ed indicazione del di lui fratello, anzi da uno dei vetturali fui io stesso assieme a Colutta, al disertore Fontanelli ed a Ferdinando Carnielutti dietro l’ordine del menzionato Asquini e condotti dal di lui fratello Canciano. In proposito a questa requisizione anzi, narrerò che giunti alla casa del vetturale, Canciano Asquini chiamò per nome il vetturale perché aprisse e dietro costui rifiuto ordinava assieme al Fontanelli di sforzare la porta e di aprire a suon di calci e di colpi di fucili, per cui eseguendo tali ordini quel vetturale sbigottito venne ad aprire e quando entrammo il fratello di Asquini gli disse di attaccare il cavallo e che altrimenti lo dovrebbe fare per forza, lasciatomi a garante dell’esecuzione assieme al Carnielutti, Canciano col Colutta e Fontanelli ritornarono all’osteria. Io non so come il Canciano ci entrasse, se cioè per forza o volontariamente, ma dal tono imperativo che adoperava verso di noi ordinandoci di battere alla porta e di atterrarla, dovetti concludere che egli fossevi tutt’altro costretto.
Sono quattro i carri che vengono portati davanti all’osteria Schiratti intorno alla mezzanotte, dove vengono caricate le armi e i generi di vestiario in eccedenza che, nelle intenzioni dovevano essere usati dagli arruolati che attendevano a Venzone. I carri vengono guidati dai vetturali proprietari costretti a servire la banda. Fu eseguita la distribuzione delle munizioni:
Dopo aver bevuto e riempite di vino le fiasche il Capitano e l’Asquini ci ordinarono di porci in fila, di prendere il proprio fucile e di entrare a due a due nella stanza terrena a mano destra di chi entra, e la loro, giutati da Bortoluzzi, ci distribuivano la munizione prendendola da due cassette, consegnandoci 4 pacchi per ciascheduno e caricando per chi non sapeva il fucile, munizione che assieme ai capsul riponemmo nel sacco di pelle.
Dinnanzi l’osteria vennero la sorella di Valentino Asquini ed un’altra ragazza di Majano, e si fermarono colà fino alla nostra partenza. Esse dovevano saper di che si trattasse perché Pietro Rassatti consegnò alla prima un portafoglio col suo congedo dell’Autorità militare Piemontese dicendole che avesse a custodirglielo fino al ritorno. Tutti montammo sulle carrette che là erano arrivate, e nel partire, quelle due ragazze ci auguravano buon viaggio e buona fortuna e l’oste congedavasi col Cella che lo pagò.
La banda parte dopo mezzanotte, tra l’una e le due e arriva a Venzone verso le 5 di domenica 6 novembre, usando la precauzione di passare Ospedaletto con tutti smontati dai carri e a fanali spenti per non venire visti e uditi dalle sentinelle della caserma di truppa di quel paese. A Venzone Cella con Menchini, Buttazzoni, Colloredo e qualche altro si recano alla stalla della stazione di Posta e requisiscono 4 cavalli rilasciando ricevuta, sottolineando con ciò di non essere dei predoni e che il nuovo Stato portato dalla rivoluzione avrebbe ripagato i 4 cavalli. Dal documento rilasciato veniamo a sapere che Cella denomina il suo gruppo La seconda banda dei cacciatori delle Alpi i cui componenti sono:

Asquini Valentino da Majano di anni 32, commerciante di legnami
Battigello Pietro detto Fedrici o Manfrin da S. Daniele di anni 20, tipografo
Beltrame Pietro da Ragogna
Bertola Giovanni detto Italiano da Rivarotta di Pasiano di anni 24, fornaciaio, residente a S. Daniele
Bortoluzzi Vincenzo da S. Daniele, ingegnere
Buttazzoni Valentino da S. Daniele di anni 23, agente di commercio
Carnielutti Ferdinando da Pers fratello di
Carnielutti Luigi detto Stoppa da Pers
Cattarin Anselmo da Majano di anni 24, muratore
Cella Giovanbattista detto Titta da Udine di anni 27, avvocato
Colloredo Francesco da S. Tomaso di anni 24, argentiere
Colutta Giovanni detto Bocchiate da S. Daniele di anni 24, falegname
De Mezzo Antonio da Majano, cugino di
De Mezzo Valentino detto Kossut da Majano di anni 29, contadino
Fontanelli Angelo detto Cappellan da S. Daniele di anni 22, fornaio, fratello di
Fontanelli Giovanbattista da S. Daniele di anni 24, fornaio, disertore
Maule Luigi da Gradisca d’Isonzo di anni 15, apprendista, residente a S. Daniele
Menchini Antonio da Tolmezzo di anni 20, orologiaio, residente a S. Daniele
Ongaro Luigi da S. Daniele
Peverini Vincenzo da S. Daniele
Rassatti Pietro detto Vacca da S. Daniele di anni 24, pizzicagnolo
Salsilli Giandomenico da S. Daniele, agente di negozio
Varisco Giacomo da S. Daniele di anni 23, macellaio
Veritti Daniele detto Snello da S. Daniele di anni 24, calzolaio
Volpini Fortunato Giuseppe da S. Daniele di anni 16, praticante presso la Pretura
Zucchiati Antonio detto Crico da S. Tomaso di anni 22, muratore, soldato in permesso


Majano

Tra gli incartamenti processuali (busta n° 7) si trova un documento del 27 settembre 1865, con alcuni cenni su Majano e sull’osteria di Valentino Schiratti inviati al Comando delle Truppe in Udine, richiedente informazioni, dal Commissariato Distrettuale di S. Daniele.
Majano non è che una piccola villa abitata quasi esclusivamente da agricoltori e contadini, i quali non mai si recano il giorno feriale all’osteria, che frequentano soltanto nei giorni festivi.
Quasi nullo è il numero degli artigiani e delle persone di condizione civile, che anche nei giorni feriali potrebbero frequentare l’osteria.
Lo Schiratti Valentino tiene il suo esercizio di osteria in luogo isolato, all’estremità del paese, ed a qualche distanza dagli altri caseggiati, per cui fu impossibile avere nozioni da vicini all’osteria.
La moglie dello Schiratti per puerperio trovavasi nel giorno 5 del passato novembre, ed in qualche giorno precedente e susseguente, obbligata a rimanere nella camera da letto e ad astenersi da qualunque sevizio nell’osteria. I figli dello Schiratti, il quale non aveva a detta epoca alcun servo o cameriere, sono di assai tenera età.
Quelli che qualche volta frequentavano l’osteria anche nei giorni feriali, in parte sono degenti in carcere ed in altra parte trovansi all’estero.

I garibaldini a Moggio

Seguiamo ora l’arrivo a Moggio da Venzone e lo spostamento a Dordolla della banda di Majano e i fatti che vi succedettero attraverso il racconto dei paesani che furono in qualche modo coinvolti.
Giovanna di Antonio Tessitori di anni 28, nubile, illetterata, nelle sue dichiarazioni rilasciate al pretore di Moggio dott. Zara:
Il giorno 7 novembre io mi trovava verso le ore 7 sulla postale al lavoro nella località detta Chiampei distante dal ponte di Moggio 3 o 4 minuti. Mentre ero la vidi passare, provenienti dalla parte di Udine 4 carrette su cui stavano diversi individui indossanti camicia rossa e con cappelli alla calabrese. Nella prima delle accennate carrette osservai esistervi diversi fucili. Siccome era tempo piovoso ed incominciava anche a cadere la neve abbandonai il lavoro e mi recai a casa. Nel passare con la gerla presso l’osteria condotta da Lucia Candussio, osservai che gli individui che aveva veduto prima si trovavano qui raccolti. Appena vedutami, uno di questi di statura alla gracile e con mustacchi, indossante camicia rossa con archibuggio mi afferrò pel braccio dicendomi:
- Vieni con noi!
.
Traspare da questo brano una curiosità del tutto femminile: non vi sono altre conferme di tempo instabile e piovoso ed è quindi da ritenere che sia stata una scusa per poter rientrare a casa così da mettersi ad osservare gli accadimenti dal portone. Non si può darle torto poiché l’avvenimento era davvero eccezionale.
Lasciamo per un momento Giovanna sul portone di casa e proseguiamo il racconto con le esilaranti deposizioni rilasciate da Francesco fu Giacomo Fuso di anni 46, ammogliato con 5 figli, gestore del negozio di caffetteria, pizzicagnolo ed osteria situato rimpetto gli uffici della pretura nella piazza principale di Moggio:
Erano circa le ore 6 ant. Del 7 corr. quandoché, svegliato mi fece avvertito la moglie che era d’uopo alzarsi e tutti e due indossati i propri vestiti ci siamo portati in cucina. Siccome il giorno prima avea consumato l’acquavite che stava nell’esercizio, così mi trasferii con un secchio nel magazzino, distante dal negozio circa 50 metri, ove non mi soffermai che qualche minuto e quando ritornai verso il negozio osservai che due individui indossanti camicia rossa, armati di fucile, con bajonetta in canna trovavasi fuori dal mio negozio. Ad omaggio del vero devo dichiarare che a tal vista rabbrividii, ritenendo che degli altri si fossero introdotti nell’esercizio e mi avessero manomesso il buono e il meglio. Accelerai il passo e giunto sul limitare del negozio osservai che presso il banco vi si trovavano 10 o 12 di quei individui tutti armati di fucile con bajonetta in canna ed indossanti camice rosse. Nell’esercizio trovavasi la moglie da sola. Al mio arrivo uno di essi, di statura vantaggiosa con piccoli mustacchi negri, mi disse che non temessi di nulla, che essi erano galantuomini, e che avessi senza nessun timore somministrato loro quanto avessero richiesto, che ne resterei pienamente saldato.
Deposi l’acquavite che portava ed intanto che la moglie, ignara di cosa si trattava, somministrava loro dei gotti di rosoglio
[rosolio] e rum, mi portai in camera ed in fretta nascosi quanto denaro possedeva, e benché mi avessero assicurato di nulla temere.
Restituitomi nuovamente all’esercizio, altro di essi di statura piuttosto bassa, senza né barba né mustacchi, indossante paletò
[paletot] negro, con cappello rotondo in testa, armato di fucile a doppia canna, mi ordinò che subito gli avessi apprestate 28 bine [coppie] di pane e 20 libbre di formaggio, ripetendomi l’assicurazione che ne rimarrei per intero pagato. L’individuo dal paletò negro veniva da essi chiamato col nome di capitano. Non potrei indicare la quantità del rosoglio e altri liquori, che a quei individui somministrai, potendo solo assicurare che il complesso delle somministrazioni loro fatte ammontava a fiorini 19 e soldi 80 e questo importo mi venne pagato con una genova dall’indiviuo che chiamavano il capitano.
Questo, all’atto del pagamento, estrasse dalla saccoccia esistente sotto il braccio del paletò, un rottolo di genove ove ne dovevano essere circa 50, e restituito il di più di quanto importava il mio avere, consistente in un pezzo da 20 franchi e moneta spicciola, rimise tanto questo che le genove nella medesima tasca da dove avea estratto il rottolo delle genove. Mi preme di dire anche che i due individui che al ritorno dal magazzino, trovavansi fuori dal mio negozio, tenevano spianati i loro archibuggi verso quest’ufficio
[la pretura] ma vennero richiamati dall’individuo col paletò con le precise parole:
- Vé, vé giovanotti, abbiate prudenza.
Uno di questi individui di corporatura complessa piuttosto bassa con folti mustacchi negri mi disse che gli avessi rinvenuta persona che avesse servito loro da guida, ma io me la cavai alla meglio dicendo che era un forestiero.
Mentre colà si trovavano capitò nel mio esercizio Pietro Foramitti, chiedendo informazioni sul lavoro che dovea eseguire in quel giorno, siccome dei miei operai, e subito fu circondato da quegli individui.
Divertente questo negoziante che lascia sola la moglie per mettere al sicuro i soldi, che vende acquavite a secchi e che mente evidentemente nella circostanza dell’arrivo del Foramitti: è più probabile che Fuso abbia detto a Foramitti che vi era da guadagnare a far la guida ai garibaldini.
Questa supposizione è suffragata dalle dichiarazioni di Foramitti che contrastano con quelle di Giovanna Tessitori. Ma andiamo per ordine ascoltando Pietro di Floriano Foramitti, nativo di Moggio, 49 anni, ammogliato con prole (Fuso diventa qui Tommaso per un qualche motivo che ci sfugge):
Nella mattina del 7 novembre io mi recai nella bottega di Tommaso Fuso per ricevere dallo stesso degli ordini relativi al lavoro precedentemente commesso.
Io rimasi stupefatto come quella bottega fosse piena di così detti garibaldini colla camicia rossa e completamente armati di fucile a bajonetta, pistole e coltelli.
Al mio entrare uno di essi di statura piuttosto giusta che indossava un paletò di panno nero, mi venne d’appresso ed in tono di comando mi disse:
- Tu verrai con noi e servirai da guida.
Cercai di rifiutarmi adducendo che ero impegnato in un lavoro e che d’altronde avea 10 figli da mantenere, non essendo per di più pratico per le montagne. Mi fu allora soggiunto che non dovea fare osservazione e mi chiese se era mai stato a Pontebba dalla parte di Studena. Impaurito non essendo mezzo per trarmi d’impaccio risposi macchinalmente di si, e da quel punto fui tenuto quasi prigioniero. Dopo una mezz’ora circa e propriamente verso le 9 ant. quei due o tre che mi guardavano mi dissero di seguirli ed andammo sul piazzaletto di faccia all’osteria di Lucia Franz.
Torniamo da Giovanna Tessitori che osserva il movimento della piazza dal portone di casa:
Mentre colà mi trovava vi giunse Pietro Foramitti, il quale si portò in casa di certa Lucia Pitacco, per esortarla a seguir la banda e non essendo questa in casa disse a me che volessi all’uopo prestarmi che ne rimarrei soddisfatta. Io mi rifiutai di bel nuovo allegando a mia giustificazione che non era decoroso di una giovane di partirsi da casa con tanti individui, ma mentre faceva al Foramitti questa osservazione, lo stesso individuo da me descritto comparve fra noi e udito il mio rifiuto mi disse che se non fossi prestata per amore, lo sarei per forza, e così dicendo proseguì il suo viaggio per la contrada. Impaurita delle fattomi minacce, presi di nuovo il gerlo e mi portai sul piazzale fuori dell’osteria Candussio ove trovavansi questi individui. Io meco erasi trasferito il Foramitti il quale assicurava che ne rimarrei pagata. Al mio giungere uno di questi mi disse in friulano:
- Siete qui!
La banda si è spostata ora dall’altra parte della piazza di fronte l’osteria di Lucia Candussio vedova Franz, 56 anni, che dice:
Precisamente in sulle ore 7 circa ant. Del giorno 7 novembre, trovandomi io con mio figlio Giovanni in cucina si udì dal sottoportico una voce, che non riconobbi, la quale diceva:
- Sono giunti i disertori!
A tale annunzio io era tramortita dalla paura, e mentre il detto mio figlio entrava nel sottoportico dell’osteria per recarsi, come al solito, nella sua bottega da pizzicagnolo, io pure venni sulla porta della cucina e guardando fuori vidi non saprei dire quanti individui armati di fucile, con cappello alla calabrese e con camicia rossa, che appunto stavano sulla porta dell’osteria, alcuni subito al di fuori e altri nel sottoportico. A tale vista mi venne ancor meno il coraggio e mi ritirai nuovamente in cucina, immaginandomi tosto che quella fosse una banda di garibaldini.
Sentiamo ora Giovanni, figlio di Lucia Candussio Franz, di anni 38, ammogliato con prole, proprietario di un negozio di pizzicagnolo:
Precisamente nella mattina 7 novembre alzatomi dal letto alle 6 e mezza circa, discesi in cucina onde riscaldarmi al fuoco, quando subito dopo intesi la voce che diceva sono giunti disertori. Lasciai allora la cucina e venni sull’altra di entrata dell’osteria condotta da mia madre e colà vidi sei o sette individui armati di fucile e bajonetta in canna e con una camicia rossa sopraposta al loro vestito però messa entro ai loro calzoni che erano di vario colore. Al vedermi due di essi mi si avvicinarono e mi chiesero se il fuoco fosse di già acceso, io risposi affermativamente.
Mi accorsi subito che quei individui dovevano essere i così detti garibaldini, e procedendo con qualche imbarazzo io uscii da casa e come al solito venni ad aprire la bottega di pizzicagnolo da me condotta, posta sulla strada che mette al canale dell’Aupa, e dalla quale più non mi mossi. Un quarto d’ora dopo, due di quegli individui, senza armi, si presentarono al mio negozio chiedendomi se vendessi guanti, a cui risposi negativamente.
Ancora Lucia Candussio Franz:
Poco stante uno di essi comparve in cucina e mi domandò se avessi delle uova, al che, rispondendo io che avrei procurato di trovarne, egli soggiunse che dovessi invece fare dei caffè stante che avean premura di andarsene. Fatti i caffè li portai nel sottoportico e fu in quell’occasione che potei vedere che erano stati portati alcuni sacchi e uno era aperto e conteneva delle scarpe nuove di cuoio di cui un paio veniva a ciascheduno di essi distribuito. Nel frattempo erasi alzato anco mio figlio Domenico...
Domenico fu Domenico Franz di anni 33, ammogliato con prole, oste:
...appena alzatomi dal letto e disceso le scale, mia madre Lucia mi avvertiva, tutta tremante, della comparsa di una banda di così detti garibaldini, dei quali al suo dire molti stessero nel sottoportico della nostra osteria. Difatti sporgendo la testa fuori della porta della cucina potei realmente vedere che molti individui stavano raccolti nel detto sottoportico. Io mi avanzai verso essi per vedere che cosa facessero e vidi infatti che alcuni stavano aprendo due o tre sacchi colà portati dai quali estraendo primieramente delle scarpe nuove di cuojo vennero distribuite un paio per ciascheduno.
Potei osservare che taluno della banda era arrivato a Moggio vestito civilmente, intendo dire all’artigiana, perché aperto il sacco contenente camice rosse, vennero a questi distribuite, e anche munizioni nella relativa fiaschetta, per cui non temo di errare che taluno di quella banda abbia indossato le camice rosse soltanto a Moggio e le loro armi erano fucili a bajonetta che avevano tutti appoggiate al muro del sottoportico. Quelli individui parlavano il dialetto friulano e si davano pressa nell’eseguire la distribuzione degli effetti suaccennati, osservando che non dovevano mica soffermarsi a Moggio.
Essi bevettero nella mia osteria tre caffè ed essendo, come ho detto, nel sottoportico, ripresi le chicchere e le portai in cucina, mentre il caffè venne pagato da uno di essi con un quarto di fiorino.
Un solo garibaldino comparve in cucina a riscaldarsi al fuoco e potei vedere come esso fosse armato di una pistola che teneva ai fianchi. Nella cucina trovavasi alcuni carradori che non so nominare i quali non si mossero mai dal loro posto presso il fuoco ed appunto verso uno di questi si rivolse il garibaldino dicendogli.
- Non mi conoscete voi?
L’altro rispose negativamente mentre il garibaldino continuava:
- Quando andate a casa ditelo a mio padre, che sarebbe dal poi il beccaio, che io non ho fatto in tempo a salutarlo.
Altro non disse a essi. Allora il carrettiere si rivolse agli altri dicendo:
- Adesso so che egli è il figlio del beccaio del mio paese [si tratta del garibaldino Giacomo Varisco].
Io poi non so se quel carrettiere fosse di S. Daniele o Osoppo, avendolo soltanto qualche altra volta veduto in osteria.
Appena rientrato in cucina un individuo colla camicia rossa si presentò sulla porta dicendo:
- Oste!
Io mi gli avvicinai ed egli presomi in disparte mi chiese se non avessi una stanza non abitata da porre a sua disposizione. Io gli risposi negativamente facendogli osservare che non avea stanze in libertà. Non di meno egli insisteva nella domanda ed io nel rifiuto, quando che si accorse di un sottoscala, si avvicinò e dando di piede contro la porta la aperse e mi interrogò che cosa tenessi la entro, io gli risposi:
- Dell’avena, della semola e qualche utensile di famiglia.
A me egli soggiunse:
- Questo è molto a proposito, perché è oscuro.
Ed alla ulteriore mia ricerca perché ne abbisognasse replicò che voleva nascondere quelle arme e quella roba che gli erano sopravanzate essendogli impossibile portarle seco. Si fu allora ch’io mi opposi, ma a nulla valse, che datomi una spinta mi cacciò in cucina tenendo chiusa la porta.
Così le armi ed altri oggetti portati in più per i promessi arruolati di Venzone furono lasciati nell’osteria Franz. Appena la banda partì da Moggio Domenico si precipitò dalle autorità per denunciare la presenza dei fucili nel suo sottoscala.
C’è ancora un fatto accaduto a Moggio da annotare che riguarda Giovanni Bertola, componente la banda. Domenico Franz afferma averlo veduto:
...d’un subito muovere le braccia e cercare di levarsi la camicia rossa, dicendo che egli non volea seguir la banda, che se lo avesse pur fucilato ma non volea più andare innanzi, altrimenti si sarebbe egli stesso ucciso. Due suoi compagni lo trattenevano, quando comparve colui al quale si dava il nome di capitano che disse.
-Lasciatelo fare, avanti si ma indietro no!
Questo momento che appare così drammatico viene ripianato dalle deposizioni di Giovanni Bertola detto Italiano di Francesco e della fu Antonia Damian, nato a Rivarotta nel distretto di Pordenone, 26 anni, celibe, fornaciaio, alle dipendenze di Daniele Tamburlini in S. Daniele. Bertola il 6 novembre fu arruolato ubriaco da Beltrame e Ongaro, continuò a bere all’osteria Schiratti di Majano e dormì sul carro tutto il viaggio.
...siccome ero molto ubriaco solo ricordo che fui collocato sopra una carretta trovandomi la mattina a Moggio. Arrivati in quel villaggio, essendo cessati in gran parte gli effetti della ubriachezza mi fecero indossare una camicia rossa, un bonetto, consegnandomi anche un sacco di pelle, alcune cartatucce, uno schioppo con la bajonetta che mi fu caricato da uno della banda, nonché una fiasca di latta, levando il tutto da un sottoportico e dicendomi di andare avanti che avessimo da batterci.
Torniamo ora al racconto di Giovanna Tessitori che lasciammo davanti l’osteria Candussio condottavi da Foramitti:
...fattomi deporre il gerlo il Foramitti depose in questo una cassetta di tela bianca della capacità di 8 o 9 libbre di grano ed una cassetta della lunghezza di 5 quarte, di abete, e ciò eseguito mi si disse che attendessi l’arrivo di altra donna. Poco stante comparve Lucia Treu maritata Borghi e caricato il gerlo di questa, quei individui si diressero verso il canale dell’Aupa a due a due gridando “viva Garibaldi” e con bandiera bianco verde.
Un altro testimone Giovanni Franz vede la bandiera bianca e verde:
...sfilarono dinnanzi il mio negozio diretti verso il canale dell’Aupa per cui ebbi campo di contarne 26 soltanto. Quando passarono a me davanti andavano gridando “viva Garibaldi” e tenevano spiegata una piccola bandiera che mi parve fosse soltanto bianca e verde.
Solamente vari fanciulli al di sotto dei 17 anni li seguirono per curiosità, ed anzi uno della banda si rivolse contro di essi ordinando di soffermarsi poiché in caso diverso avrebbe fatto fuoco contro di essi. Tale intimazione fu sufficiente per disperderli.
Drammatizza Pietro Foramitti:
Davanti l’osteria i componenti la banda armata furono messi in rango da quello dal paletò nero che sembrava essere il capitano; lo istesso ordinò di andare avanti, e a me pure disse:
- Guida avanti!
E fattomi prendere la direzione verso il canale dell’Aupa parecchi di essi gridarono “viva Garibaldi”.
Io mi tenni perduto e non vedendo mezzo da loro sfuggire continuai sempre d’innanzi, senza muover parola, il cammino fino ai piedi della borgata di Dordolla, posta a due ore circa di cammino lungi da Moggio a cavalieri del Canale Aupa. Quivi dissero di ascendere alla borgata e colà entrammo in casa di certa Sabbata Tolazzi che vende vino ed acquavite e colà fu fatto allestire il desinare.
Chiudiamo, come abbiamo cominciato, con Giovanna Tessitori:
Io e la Lucia Treu abbiamo seguito quella banda fino a Dordolla. Oltre alla indicata cassetta e sacco mi fu consegnato due bottiglie in un fazzoletto che non so di qual specie di liquore fossero ripiene.
Per tutto il tratto di cammino da Moggio a Dordolla noi due seguivamo da dietro quei individui che erano in numero di 26 o 28. Coi carichi che avevamo c’era d’uopo di quando in quando soffermarci ed allora taluno di quelli ci chiedeva se eravamo stanche. Giunti nella borgata di Dordolla, due ore da qui distante, ci condussero nell’osteria Sabbata ove ci fu somministrato pane e formaggio e dove fummo licenziate verso il compenso di lire 2 per ciascheduna e tutte giulive di essere liberate ce ne tornammo a casa.

Nelle province venete sotto la dominazione austriaca, all’epoca dei fatti narrati, la moneta ufficiale era il fiorino d’argento, con i sottomultipli, detti soldi, in rame. Circolavano però anche monete di altri Stati comprese quelle del nuovo Stato italiano: le lire.
L’unità monetaria per le transazioni significative era il marengo (250 euro circa), ossia il 20 franchi d’oro, detto anche napoleone, o l’equivalente 20 lire del Regno d’Italia. Il salario mensile di un impiegato di allora si aggirava sui due marenghi e mezzo. La moneta da 1 fiorino austriaco, battuta dalla zecca di Venezia fino al 1866, aveva un peso di grammi 12,35, corrispondenti a 2,47 lire italiane (30 euro circa).
La parola “rottolo” che fa pensare a delle banconote avvolte su se stesse veniva a quei tempi utilizzata anche per le monete, che in caso di forti somme venivano trattate e trasportate in rotoli.
La Genova o doppia di Genova che incontriamo nei documenti citata più volte potrebbe essere lo scudo d’oro, battuto appunto dalla zecca di Genova e dalla transazione economica avvenuta nella bottega di Francesco Fuso sembra avesse un valore di 3 marenghi.

PARTE II


GENERALITÀ e VIE D’ACCESSO

Il gruppo Sernio-Grauzaria fa parte delle Alpi Carniche e si trova a Nord della confluenza del Fella nel Tagliamento, tra la valle del But e la sua diramazione Canale d’Incarojo e la Val Aupa; è collegato a Nord al massiccio del Zermùla tramite una lunga dorsale e il punto convenzionale di divisione tra i due gruppi è la Forca Griffon. E’ il gruppo più meridionale della catena Carnica, il più prospicente alla pianura friulana dalla quale si può facilmente riconoscerne le sagome; dalla S.S. 13 tra Gemona e Venzone la visione che si ha del gruppo è particolarmente accattivante: oltre la dorsale Est del monte Amariana appaiono i massicci rocciosi del Sernio e della Grauzaria, uno opposto all’altro e leggermente divergenti come i petali in una corolla; le altre cime satelliti completano il disegno e l’insieme da l’impressione di un enorme fiore che ha il suo calice nella selvaggia val Nuviernulis.
La roccia delle cime principali è il calcare dolomitico con giacitura degli strati affiorante prevalentemente verso Nord e il conseguente affacciarsi di alte e verticali pareti rocciose proprio verso questo punto cardinale. La posizione geografica e la costituzione litologica fa si che il gruppo Sernio-Grauzaria sia più affine alle Alpi Giulie che alle Carniche e lo dimostrano anche recenti studi botanici che rilevano nelle Alpi di Moggio una flora tipicamente julica.
Il monte Sernio, cima più alta del gruppo, viene citato per la prima volta in documenti risalenti al 1298 dove viene nominato Serenât, dal latino serenus = spoglio, privo di alberi. In altre carte del 1740 viene detto Sirignò. La prima salita si deve alle sorelle tolmezzine Minetta e Annina Grassi che calcarono la vetta il 21 agosto 1879. Nel 1840, si dice sia arrivato in cima l’arciduca Giovanni d’Austria ma di questa salita mancano prove documentali e appare essere solo una novella locale.

Il territorio trattato nella presente guida è facilmente raggiungibile partendo dall’uscita Carnia - Tolmezzo dell’autostrada Udine Tarvisio (A 23) e salendo sulla S.S. n° 52 che ha una direttrice Est – Ovest:

verso Est (indicazioni Tarvisio - Udine)
1 - Amaro, ponte della Carnia, Moggio Udinese, Dordolla
Verso Ovest (indicazioni Tolmezzo)
2 - Tolmezzo, Illegio, Pra di Lunze
3 - Tolmezzo, Valle del But, Cedarchis, Val d’Incarojo

1 - Amaro, ponte della Carnia, Moggio Udinese, Dordolla

Imboccata la S.S. n° 52 in direzione Tarvisio si oltrepassa l’abitato di Amaro e si va ad attraversare il torrente Fella sul Ponte della Carnia (5 km dall’uscita autostradale)

1a Poco prima di salire sul ponte si piega a sinistra su di una stradina priva di indicazioni. Passati due volte sotto l’autostrada si arriva alla partenza del sentiero CAI n° 415 (comodo parcheggio). Questa strada prosegue per altri 5 km a fondo naturale fino a Campiolo di sotto ma non sempre è transitabile.

Dopo il ponte sul Fella c’è uno svincolo dove si seguono le indicazioni per Tarvisio e lungo la scorrevole S.S. 13 si arriva al bivio per Moggio Udinese; passato il ponte si ha sulla sinistra la cartiera al termine della quale si trovano le indicazioni per Campiolo (10 km dall’uscita autostradale)

1b Poco dopo intrapresa, la strada per Campiolo si biforca: si va a sinistra (indicazioni) e la strada diviene stretta, passa due volte in galleria e dopo 4 km si è ad un trivio (a sinistra si scende a Campiolo di Sotto).
A destra si è in breve a Campiolo di Sopra dove si individua la tabella di partenza del sentiero CAI n° 417 (conviene proseguire 50 metri oltre la tabella dove, sulla destra, c’è una comoda piazzola di parcheggio). La strada, oltre Campiolo di Sopra, prosegue per circa un chilometro e dopo due stretti tornanti termina presso il pilone della teleferica di servizio alla frazione di Stavoli. Qualche metro a valle del primo tornante scende verso il torrente un’evidente traccia che va ad innestarsi sul sentiero 417 appena dopo il ponte della ferrovia.

1c Al trivio proseguendo dritti si passa il ponte di un ruscello secondario e poi quello sul torrente Glagnò e prima di entrare in galleria si nota, a destra (segni rossi), la partenza del sentiero che risale la dorsale Est del monte Amariana. La strada prosegue per altri 5 km (vedi 1a).

La strada passa nell’abitato di Moggio e prima di entrare nel centro del paese si va a destra seguendo le indicazioni Val Aupa. Passato due volte su ponti il torrente Aupa si giunge al bivio per la frazione di Grauzaria (20 km dall’uscita autostradale).

1d Si sale verso la borgata con due tornanti arrivando ad un bivio: si prosegue a sinistra (indicazioni Monticello) fino ad avere sulla sinistra il torrente Rio dalla Forcje; 100 m prima di attraversarlo su di un ponte, sulla destra sale una strada sterrata, all’inizio della quale c’è la tabella che indica la partenza del sentiero CAI n° 444 (tabella un po’ nascosta dalla vegetazione; 21 km dall’uscita autostradale).

Proseguendo sulla strada della Val Aupa dopo il bivio per Grauzaria si trovano le indicazioni per Dordolla e 1,5 km più avanti si è all’attacco dei sentieri CAI 436 e 437, nei pressi di un ponte (fermata autobus; tabelle; 24 km dall’uscita autostradale).

1e Si può percorrere con l’auto la strada che sale prima del ponte che dopo 800 metri termina presso la località Case Stallon del Nanghet (partenza del sentiero 437; buon parcheggio).

2 - Tolmezzo, Illegio, Prà di Lunze

Si abbandona la S.S. n° 52 al primo svincolo per Tolmezzo fino ad una grande rotonda con aereoplano nella zona industriale (4 km dall’uscita autostradale). Qui si va a destra e attraversata la vecchia statale Carnia – Tolmezzo si sale per centro abitato, per poi uscirne trovando sulla sinistra la palestra di roccia del monte Strabût; di fronte a questa l’enorme conoide detritica dei Rivoli Bianchi alla base del versante Ovest del monte Amariana (8 km). Ancora un tratto di strada intagliata sul lato destro orografico di una forra e si perviene alla ridente conca di Illegio (11 km).

2 a Al bivio all’entrata del paese si va a destra e dopo duecento metri circa ancora a destra su di una stradina dove si trova la partenza del sentiero 443 (comodo parcheggio).

Attraversato l’abitato, sempre sulla strada principale, si inizia a penetrare nella valle del Rio Frondizzon con tratti su fondo naturale; ad inizio stagione la strada potrebbe non essere percorribile: informarsi ad Illegio. Risalita ancora la valle con numerosi tornanti si raggiungono le spianate prative di Prà di Lunze; una prima forestale si diparte sulla destra e conduce a Sella Dagna e prosegue poi per il bivacco Cimenti e forca Pradut; una seconda, sempre verso destra con all’inizio la tabella del sentiero CAI n° 412; una terza, quella detta del Plan de la Gatta, verso sinistra; tutte e tre queste strade sono vietate agli automezzi non autorizzati; poco dopo anche la strada fin qui percorsa diviene a circolazione vietata nei pressi del guado del Riu Blanc (16,5 km).

3 - Tolmezzo, Valle del But, Cedarchis, Val d’Incarojo, Dierico

Percorrendo la S.S. n° 52 si arriva al grande svincolo ad Ovest dell’abitato di Tolmezzo dove si tiene la direzione Arta – Passo di Monte Croce Carnico innestandosi sulla S. S. 52 bis nei pressi delle carceri. Dove la strada costeggia il torrente But in alto a destra appare la chiesa di San Floriano. Passate le frazioni di Imponzo (13,5 km dall’uscita autostradale) e Cadunea, subito dopo il ponte sul torrente Chiarsò (località Cedarchis, 15 km) si gira a destra per risalire il Canale d’Incarojo con vista sulla mole del Sernio e del borgo di Lovea abbarbicato alle sue pendici.

3b Dopo 2,5 km, in località Piedim si stacca sulla destra la strada per Plan Coces:
oltrepassato il torrente Chiarsò la strada asfaltata si alza molto ripida e stretta, raggiunge gli stavoli Chiarzò e poco dopo Plan Coces dove si può trovare parcheggio davanti la vecchia scuola elementare (2 km da Piedim).

Dopo 5,5 km da Cedarchis, prima di un lungo viadotto bivio per Lovea:

3c la strada scende passando sotto il viadotto e inizia poi a salire con alcuni tornanti (carreggiata stretta, incrocio difficoltoso tra i veicoli) tenendosi sulla sinistra orografica del Rivolo di Lovea e poi con un lungo rettilineo in salita raggiunge Lovea 680 m circa in bella posizione panoramica (6 km dal bivio; 27,5 km dall’uscita autostradale).
Subito prima dello slargo adibito a parcheggio all’entrata del paese, si stacca sulla sinistra una strada asfaltata che si può percorrere con cautela (molto stretta) per 2 km fino agli Stavoli Chiampees. La strada continua ancora, oltre le costruzioni rurali, scende ad uno slargo (parcheggio; inizio sentiero CAI n° 416) e prosegue fino a che la circolazione diviene interdetta in corrispondenza del guado sul Rio Ambruseit.

Oltre il viadotto alcune gallerie portano molto velocemente alle prime frazioni di Paularo e al bivio per Dierico; passato il ponte sul Chiarsò si trovano le indicazioni per un agriturismo (1 km) poi per Dioor (500 m; stradina stretta e ripida); attraversato su di un altro ponte il Rio Mueia si sale in breve a Dierico ( 26 km dall’uscita autostradale).

Note (purtroppo la numerazione è saltata)

G. BEVILACQUA articolo in Messaggero Veneto 12 febbraio 1985
A.e I. DAL FABBRO L’ultima rivolta dei mazziniani, Gaspari editore, Udine, 2005
C. LAGOMAGGIORE Dizionario del Risorgimento Italiano, vol. II, Vallardi, Milano, 1930
G. MAZZINI I doveri dell’uomo, 1860
G. STEFANI lettera pubblicata in Commemorazione in onore di Giovanbattista Cella, Cosmi editore, Udine, 1880
Lettera di Alfonso Morgante, Fondo Cella, Museo del Risorgimento, Udine
Lettere di Adelaide Bono Cairoli, Fondo Cella, Museo del Risorgimento, Udine
G. B. BONALDI lettera pubblicata in Commemorazione in onore di Giovanbattista Cella, op. cit.
Lettera pubblicata in La Patria del Friuli 14 maggio 1910
G. BEVILACQUA articolo in Messaggero Veneto 12 febbraio 1985
Lettera di Benedetto Cairoli, Fondo Cella, Museo del Risorgimento, Udine
Nota dell’I. R. Commissariato Provinciale di Polizia di Udine al Capitano Auditore Adolfo Mayer, 24 luglio 1865; documenti processuali riguardanti Gio. Batta Fontanelli, busta n° 6, fondo Procura della Repubblica, Processi Politici vari anno 1865, Archivio di Stato di Venezia.  
Per più complete informazioni vedi STEFAN DELUREANU in Quaderni Guarneriani n° 4,Comune di San Daniele, ed. Senaus, Udine, 2005. Anche MORABITO LEO, La cospirazione mazziniana dal 1863 al 1865, Bollettino della Domus mazziniana, a. XXXVII (1991), n. 2, Pacini Editore, Pisa.
Tratto da G. MADINELLI e M. ONOFRI Marziano Ciotti, l’occhio dritto di Garibaldi, edizioni Circolo Culturale Menocchio, Montereale Valcellina, 2005
Per maggiori notizie vedi G. MADINELLI, I sentieri dei garibaldini, ercursioni sui monti tra Meduna e Cellina sulle orme degli insorti friulani del 1864, Ediciclo Editore, Portogruaro, 2003.
ERGISTO BEZZI lettera pubblicata in Commemorazione in onore di Giovanbattista Cella, op. cit.
Esame di Agosti Pascottini 15 gennaio 1865, busta n° 6, fondo citato.
Esami di Gio. Batta Fontanelli, 9 e 10 luglio 1866, busta n° 6 e 8, fondo citato.  
Memoria orale dei discendenti di Balilla Cella.
Lettera dell’avv. Billia, Fondo Cella, Museo del Risorgimento, Udine
Lettera pubblicata in La Patria del Friuli anno XXIII n° 144 4 giugno 1910
C. LAGOMAGGIORE Dizionario del Risorgimento Italiano op. cit.
Vedi nota 15
Lettera pubblicata in La Patria del Friuli anno XXIII n° 144 4 giugno 1910
Lettera di Antonio Andreuzzi, Fondo Cella, Museo del Risorgimento, Udine
G. PONTOTTI Commemorazione in onore di Giovanbattista Cella, op. cit.
Lettera di Quintino Sella, Fondo Cella, Museo del Risorgimento, Udine
Lettera di Francesco Verzegnassi, Fondo Cella, Museo del Risorgimento, Udine
Manifesto elettorale  di G.B. Cella, Museo del Risorgimento, Udine
G. PONTOTTI Commemorazione in onore di Giovanbattista Cella, op. cit.
IL MARTELLO giornale di Udine, articolo riportato in Commemorazione in onore di Giovanbattista Cella, op. cit.
L. CENTAZZO In morte di Gio. Batt. Cella, Rivignano, novembre 1880
G. B. CELLA Al Friuli, Tipografia Zavagna, Udine, 1868, Sezione manoscritti e rari della Biblioteca Civica Joppi di Udine
Esame di Colloredo Francesco, Pretura di Udine, 31 dicembre 1864, busta n° 8, fondo citato.
Esame di Valentino De Mezzo, Tribunale di Udine, 30 dicembre 1864, busta n° 8, fondo citato.
Esame di Anselmo Cattarin, Tribunale di Udine, 29 dicembre 1864, busta n° 8, fondo citato.
Esame di Gio. Batta Fontanelli, Castello di Udine, 10 luglio 1865, busta n° 8, fondo citato.
Ibidem
Esame di Fortunato Giuseppe Volpini, Tribunale di Udine, 12 dicembre 1864, busta n° 8, fondo citato.
Esame di Giovanni Bertola, Castello di Udine, 19 dicembre 1864, busta n° 9, fondo citato.
Esame di Luigi Maule, Tribunale di Udine, 16 dicembre 1864, busta n° 8, fondo citato.
Ibidem nota 39
Ibidem nota 37
Esame di Luigi Maule, Tribunale di Udine, 16 dicembre 1864, busta n° 8, fondo citato.
Costituto di Gio. Batta Fontanelli, Castello di Udine, 10 febbraio 1866, busta n° 7, fondo citato.
Ibidem nota 37
Ibidem nota 34
Esame di Pietro Battigello, Tribunale di Udine, 11 dicembe 1864, busta n° 8, fondo citato.
Esame di Pietro Rassatti, Carceri Pretoriali di Pordenone, 14 gennaio 1865, busta n° 8, fondo citato.
Ibidem nota 39
Ibidem nota 48
Ibidem
Ibidem nota 44
Esame di Giovanna Tessitori, Pretura di Moggio, 1 dicembre 1864, busta n° 8, fondo citato.  
Esame di Francesco Fuso, Pretura di Moggio, 28 novembre 1864, busta n° 8, fondo citato.  
Esame di Pietro Foramitti, Pretura di Moggio, 28 novembre 1864, busta n° 8, fondo citato. 
Esame di Lucia Candussio, Pretura di Moggio, 25 novembre 1864, busta n° 8, fondo citato.  
Esame di Giovanni Franz, Pretura di Moggio, 25 novembre 1864, busta n° 8, fondo citato.  
Esame di Domenico Franz, Pretura di Moggio, 26 novembre 1864, busta n° 8, fondo citato.  
Esame di Giovanni Bertola, Castello di Udine, 19 dicembre 1864, busta n° 9, fondo citato.  
Esame di Sabbata Tolazzi, Pretura di Moggio, 4 dicembre 1864, busta n° 8, fondo Procura della Repubblica, Processi Politici vari anno 1865, Archivio di Stato di Venezia.  
Esame di Don Giacomo Nail, Pretura di Tolmezzo, 7 dicembre 1864,busta n° 8, fondo citato.
Esame di Fortunato Giuseppe Volpini, Tribunale di Udine, 12 dicembre 1864, busta n° 8, fondo citato.
Esame di Orsola della Schiava, Pretura di Tolmezzo, 9 dicembre 1864,busta n° 8, fondo citato.
Ibidem nota 3
Esame di Giovanni Dereani, Castello di Udine, 2 dicembre 1864, busta n° 6, fondo citato.
Esame di Pietro Battigello, Tribunale di Udine, 11 dicembre 1864, busta n° 8, fondo citato.
Esame di Francesco Colloredo, Pretura di Udine, 31 dicembre 1864, busta n° 8, fondo citato.
Esame di Pietro Foramitti, Pretura di Moggio, 28 novembre 1864, busta n° 8, fondo citato. 
Esame di Orsola della Schiava, Pretura di Tolmezzo, 9 dicembre 1864,busta n° 8, fondo citato.
Esame di Fortunato Giuseppe Volpini, Tribunale di Udine, 12 dicembre 1864, busta n° 8, fondo citato.
Ibidem nota 8
Esame di Luigi Maule, Tribunale di Udine, 16 dicembre 1864, busta n° 8, fondo citato.
Ibidem nota 7
Cfr. Corbanese Giuseppe, Grande Atlante Storico-Cronologico comparato Il Friuli Trieste e l’Istria tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, Del Bianco Editore, Udine, 1999 e anche Gelio Cassi, Un pugno di eroi contro un impero, Stem, Modena, 1932.
Esame di Luigi Maule, Tribunale di Udine, 16 dicembre 1864, busta n° 8, fondo citato.Esame di Fortunato Giuseppe Volpini, Tribunale di Udine, 12 dicembre 1864, busta n° 8, fondo citato.  
Esame di Giovanni Job di Giovanni, Pretura di Tolmezzo, 4 e 10 dicembre 1864, busta n° 9, fondo citato.  
Esame di Anselmo Cattarin, Tribunale di Udine, 29 dicembre 1864, busta n° 8, fondo citato.
Esame di Valentino De Mezzo, Tribunale di Udine, 30 dicembre 1864, busta n° 8, fondo citato.
Esame di Fortunato Giuseppe Volpini, Tribunale di Udine, 12 dicembre 1864, busta n° 8, fondo citato.
Esame di Don Giuseppe Buttazzoni, Castello di Udine, 19 dicembre 1864, busta n° 8, fondo citato.
Esame di Giovanni Job q. Giovanni, Pretura di Tolmezzo, 29 novembre 1864, busta n° 9, fondo citato.
Esame di Valentino De Mezzo, Tribunale di Udine, 30 dicembre 1864, busta n° 8, fondo citato.
Ibidem nota 20
Esame di Giovanni Scarsini q. Giacomo, Pretura di Tolmezzo, 29 novembre 1864, busta n° 9, fondo citato.Nota Commissariato distrettuale di Udine su Giovanni Job q. Giovanni, febbraio 1865, busta n° 9, fondo citato.
Esame di Giovanni Job q. Giovanni, Pretura di Tolmezzo, 29 novembre 1864, busta n° 9, fondo citato.   Esame di Fortunato Giuseppe Volpini, Tribunale di Udine, 12 dicembre 1864, busta n° 8, fondo citato.Esame di Francesco Colloredo, Pretura di Udine, 31 dicembre 1864, busta n° 8, fondo citato.
Ibidem nota 28
Esame di Anselmo Cattarin, Tribunale di Udine, 29 dicembre 1864, busta n° 8, fondo citato.
Ibidem nota 29
Esame di Leonardo Franz detto Uccellar, Tribunale di Udine, 3 gennaio 1865, busta n° 9, fondo citato.  
Esame di Luigi Maule, Tribunale di Udine, 16 dicembre 1864, busta n° 8, fondo citato.Esame di Valentino De Mezzo, Tribunale di Udine, 30 dicembre 1864, busta n° 8, fondo citato.
Esame di Giovanni Job q. Giovanni, Pretura di Tolmezzo, 29 novembre 1864, busta n° 9, fondo citato.
Esame di Giovanni Job q. Giovanni, Pretura di Tolmezzo, 29 novembre 1864, busta n° 9, fondo citato.  
Esami di Gio. Batta Fontanelli, 9 e 10 luglio 1866, busta n° 6 e 8, fondo citato.
Nota dell’I. R. Commissariato Provinciale di Polizia di Udine al Capitano Auditore Adolfo Mayer, 24 luglio 1865; documenti processuali riguardanti Gio. Batta Fontanelli, busta n° 6, fondo citato.  
Esame di Leonardo Franz detto Uccellar, Tribunale di Udine, 3 gennaio 1865, busta n° 9, fondo citato.
Ibidem nota 39
Esame di Pietro Rassatti, carceri di Pordenone, 14 gennaio 1865, busta n° 8, fondo citato.

 

[...]

La seconda parte del libro è dedicata alla descrizione dettagliata dei percorsi


 

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