Su Giuseppe Garibaldi


prof. Raffaele Piccolini

Al mio liceo, nel periodo (1965) in cui studiavamo il Risorgimento italiano, e soprattutto l’impresa dei Mille, si erano formati due partiti: i garibaldini e gli antigaribaldini. I primi sostenevano che Garibaldi era stato un eroe disinteressato, che aveva avuto a cuore le sorti non solo dell’Italia ma di tutti i paesi governati da una dittatura o dallo straniero; i secondi, che era stato un avventuriero, sempre pronto a menare le mani per il gusto di farlo, spesso al di fuori della legge, in compagnia di persone poco raccomandabili.
I libri di testo, anche con i frequenti richiami a un pacato, documentato storico inglese (Denis Mack Smith, uno dei più grandi studiosi del Risorgimento italiano) non riuscirono a placare la polemica.

La situazione economica e politica in Italia

Sarà opportuno, prima di entrare nel vivo dei temi garibaldini, fare un accenno alla situazione politica in Italia negli anni che vedono come protagonisti il nostro Garibaldi, e insieme con lui Mazzini e Cavour: gli anni dei rivolgimenti italiani sia contro l’Austria (per es. a Milano e a Venezia nel 1848-49), sia contro i sovrani interni alla penisola italiana (nel Napoletano, a Roma, nel Granducato di Toscana). Questi rivolgimenti vengono generati da una situazione di scontento di natura sia politica che economica. La borghesia produttiva del paese desiderava l’unificazione politica per allargare i mercati, liberandola dai lacci daziari e doganali (un barcone di tessuti, ad esempio, che scendeva lungo il corso del Po fino alla foce, doveva fermarsi ventuno volte per pagare dazi o dogane).
Ogni Stato aveva i suoi pesi e le sue misure che complicavano e appesantivano le relazioni commerciali.
Non esisteva un’economia integrata tra i diversi stati italiani: solo il 20% dei commerci consisteva nell’interscambio interno; era forte, invece il commercio verso i paesi esteri (l’Inghilterra, la Francia, l’Austria)
Tuttavia, bisogna riconoscere che il popolo minuto era completamente assente, indifferente. Ciò era dovuto alla scarsissima scolarizzazione di massa. Il popolo non aveva i mezzi culturali, né l’unità, almeno di classe, per far sentire la sua voce. La maggior parte dei popolani ricavava di che vivere dal lavoro dei campi, magari nei latifondi, non aveva l’idea dell’Italia come  patria comune, non parlava l’italiano, sentiva come “forestieri” gli abitanti degli altri stati del territorio italiano.
Infatti, la grandissima parte della popolazione italiana  era attiva in agricoltura (70%, dati del 1861), una parte assolutamente minoritaria lavorava nell’industria (18%), e nei servizi (12%).
Solo il 2% della popolazione parlava l’italiano, la parte restante parlava solo il proprio dialetto.
Altissima era la mortalità infantile (25% dei nati nel primo anno di età).
Si può comprendere, quindi, come l’ideale politico, coltivato in astratto senza ricadute concrete e immediate sul versante economico e sociale, era destinato a rimanere lettera morta.




La formazione culturale e gli ideali politici delle classi colte italiane Diversa, invece, era la situazione per quanto riguarda le ristrette e colte èlite italiane. Fra queste era forte la convinzione dell’esistenza di un’unica nazione che veniva fatta risalire al tempo di Roma o al Medioevo. Queste élite - studenti e professori universitari, avvocati, medici, giornalisti, scrittori, artisti in genere, pur cittadini dei diversi stati italiani - si formavano culturalmente sugli stessi autori: Foscolo, Monti, Berchet, Giusti, Manzoni, Leopardi, Pellico, D’Azeglio, Gioberti, Cuoco - ed erano frequenti gli scambi universitari e i rapporti epistolari.

La loro formazione culturale era anche legata agli ideali che pervadevano l’Europa intera in seguito alla Rivoluzione Francese e all’avventura napoleonica.

I principi fondamentali - la monarchia assoluta per diritto divino, classe dominante esclusivamente aristocratico-nobiliare - vigenti fino ad allora in tutti o quasi gli Stati europei  vengono disarticolati. Ad essi subentrano gradatamente altri principi, sia pure con profondi limiti (sui quali varrebbe la pena riflettere, ma non è qui il caso di farlo. Mi limito ad accennare alla difficoltà di sostanziare, con effettivi organismi di potere, il conclamato diritto del popolo a governare, in nome del quale furono iniziati i movimenti insurrezionali nazionali), principi, dicevo, basati sulla fondamentale idea del potere che diventa legittimo solo quando è delega del popolo,(quando non è esercitato direttamente dal popolo stesso), ottenuta attraverso le elezioni a cui hanno diritto di partecipare tutti i cittadini, in un sistema di regole costituzionali a garanzia di tutte le espressioni politiche e culturali del paese.

In Italia  questi  principi di democrazia lentamente incominciarono a diffondersi, insieme ai princìpi di libertà individuale e personale e al primo segno di coscienza nazionale. Non è un caso che il tricolore nel 1796 sventolasse a Reggio  Emilia, nella Repubblica Cispadana, nata in seguito alla Rivoluzione Francese. 

Il ciclone napoleonico, nonostante le sue contraddizioni, trasferì questi ideali in tutta Europa: da quella fase storica, nulla fu più come prima.

La Restaurazione del 1815 non fu che una parentesi: i semi rivoluzionari avrebbero presto dato i loro frutti.

L’avvio del Risorgimento italiano

Il Risorgimento italiano prende l’avvio, quindi, da una conquistata coscienza europea del primato della rappresentanza politica , delle libertà individuali , del quadro costituzionale, come ho accennato, ma nello stesso tempo si richiama al fatto che l’Italia non poteva essere solo un’”espressione geografica”, e un’”espressione storica” (di una storia che, prima delle dominazioni straniere e delle signorìe locali, aveva conosciuto un’unità di fondo pur nel quadro di una unità politica più vasta, assicurata dall’azione politico-amministrativa romana)  ma poteva e doveva diventare anche un”espressione politica”, composta, com’è, di entità regionali affini per lingua  (almeno per la lingua colta e letteraria, come s’è detto) per costumi e per vicendevoli richiami, imitazioni e rimescolamenti  tra le varie espressioni artistiche e culturali presenti sul suo  territorio - il movimento monastico, la scuola letteraria siciliana, la cultura fiorentina, ecc..
 
Quando incomincia il Risorgimento? Come motivazione etica, come linea lunga di tendenza ideale e politica, nasce esplicitamente nel 1821 (le premesse erano state poste dalla Rivoluzione Francese, ma è un tema a cui ho già accennato), ancora con timida consapevolezza perché non tocca (e non poteva toccare, data la situazione storica e la limitatissima diffusione dell’istruzione e della coscienza politica, come ho già detto) tutto il popolo.

Un breve inciso sulla durata del Risorgimento

Se poi qualcuno, per inciso, mi domandasse quando termina, risponderei (senza tuttavia poter produrre documentazioni di sorta, ammesso che si possa farlo) che esso termina nel 1945, al termine di una durissima prova: la seconda guerra mondiale, la lotta per la liberazione dal nazismo e dal fascismo, in cui cominciano a radicarsi le istanze popolari nella costruzione di rappresentanze politiche autenticamente democratiche - basti pensare alle repubbliche partigiane dove si formano i primo organismi democratici popolari -,  la riconquistata unità del paese (per più di un anno il nord e il sud erano rimasti separati).
Per certi versi, tuttavia, non è ancora finito, perché gli ideali del Risorgimento: l’unità effettiva del paese, la gestione profondamente democratica del potere politico ed economico, la saldezza e la condivisione dei principi etico-costituzionali, il senso di cittadinanza comune, la solidarietà e il rispetto tra le diverse aree regionali,  non sono ancora stabilmente conquistati

Garibaldi e il quadro teorico-politico del suo tempo Per queste classi colte italiane l’aspirazione all’unità  della Penisola divenne il loro ideale e il loro fondamentale obiettivo.

Ma presto si trovarono in disaccordo su come realizzarla.
I modelli statuali che emergevano nel dibattito culturale e politico erano basati sul modello repubblicano e sul modello monarchico, con alcune differenziazioni al loro interno di non scarso rilievo.
Infatti, è ovvio affermare che Mazzini e Cattaneo erano entrambi repubblicani, ma il primo tendeva all’unificazione italiana basata, oserei dire, sull’esperienza amministrativa francese essenzialmente dirigistica; il secondo tendeva ad accreditare alle diverse realtà statuali italiane la stessa dignità culturale e amministrativa anche perché esse avevano una consolidata tradizione storica sostanziata da una diversità linguistica (pur non usata nei documenti legislativi e giuridici ufficiali) a quel tempo marcatissima.
La medesima diversità di impostazione si poteva riscontrare nel campo monarchico.
Cavour era il principale (e agguerritissimo) esponente dell’ala dirigistica - un’unità territoriale forte, un solo centro legislativo e amministrativo con diramazioni territoriali puramente gerarchiche; mentre Gioberti propugnava una sorta di federazione a guida papale, sul modello monarchico.

L’astuzia diplomatica - esercitata abilmente in ambito internazionale soprattutto verso la Francia -, il dominio contrattuale  - dovuto all’esser egli alla guida sostanziale del più organizzato stato italiano dell’epoca -, il naturale appoggio delle classi dominanti che ebbe nel corso della sua azione politica, fecero di Cavour e della sua strategia il centro propulsore del processo di unificazione.

Ma allora, si potrebbe dire, se le cose stanno così, il processo di unificazione italiana è stata una forzatura, un arbitrio, un’imposizione  oppure,  doveva e poteva essere attuato con maggiore rispetto delle etnìe, delle culture, delle economie presenti sulla  penisola?

È difficile rispondere a questa domanda. Certo, se ragioniamo in astratto, sarebbe stato auspicabile un percorso diverso, più generoso verso i popoli, anzi più coinvolgente e partecipativo, tenendo conto della loro diversità (oggi si direbbe, a ragione, che la diversità è una ricchezza, oggi però). Ma la storia non si fa in astratto, si fa con i rapporti di forza esistenti sul campo, con le idee, le credenze, i miti, con le posizioni dominanti.

E quale fu la posizione di Garibaldi in questo quadro di elaborazioni politico-strategiche nel processo di unificazione italiana?
Come è noto, Garibaldi si era accostato ben presto agli ideali politici mazziniani. Perché, nella pratica insurrezionale, se ne allontanò?
Come si evince dalle sue “Memorie” egli agì sul territorio italiano con il motto “Italia e Vittorio Emanuele”, tuttavia rimase sempre un repubblicano, un assertore di idee socialiste, un libertario, un popolano.
Si era piegato ad appoggiare la politica annessionistica del re perché intuiva che quello era il progetto vincente, l’unico praticabile, date le forze sul campo, rimandando in un futuro indefinito le riforme amministrative, politiche e economiche, scolastiche e culturali a vantaggio delle classi più povere.
Garibaldi, in sostanza, non appoggiò la strategia monarchica per convinzione, ma per necessità.

Qualcuno mi potrebbe obiettare che Garibaldi, come in diverse occasioni non obbedì agli ordini del re (ad esempio, a proposito della questione romana), così avrebbe potuto fare di testa sua al momento del suo massimo fulgore, quando cioè ebbe in mano tutto il regno napoletano.
Perché non seguì le implorazioni di Cattaneo, al limite quelle di Mazzini, quando entrambi, pochi giorni dopo il 7 settembre 1860, giorno in cui egli entrò trionfalmente a Napoli, si erano precipitati a incontrarlo per chiedergli che, pur senza proclamare la repubblica, consentisse almeno a convocare un’assemblea costituente, in modo da dare allo stato un ordinamento più liberale e democratico rispetto a quello sancito dallo Statuto Albertino?
Perché non lo fece?
Alcuni ritengono che egli abbia voluto evitare una guerra civile (non dimentichiamo, infatti, che l’esercito piemontese era arrivato alle porte di Napoli), oppure che, dal punto di vista strategico, non ritenne sufficientemente forti le sue milizie per sostenere un urto di guerra, magari per mancanza di un retroterra pacificato e completamente concorde alla sua azione.

Da quel momento, il corso della storia italiana prende un avvio diverso da quello auspicato da molti seguaci di Garibaldi e da Garibaldi stesso: un corso autoritario, accentratore, non popolare.
C’è voluto molto tempo e ci sono voluti molti sacrifici perché le istanze popolari, in qualche modo, trovassero un tentativo di realizzazione, e gli italiani cominciassero a sentirsi tali, pur con i limiti a cui ho più volte accennato.

Torniamo adesso a Garibaldi Vorrei, adesso, centrare la mia attenzione su due aspetti: gli ideali di Garibaldi e la risonanza delle sue imprese nel mondo.

Ai primi posti, nel primo periodo della sua attività pubblica, quando ancora era vigoroso l’ardore giovanile, egli mise la realizzazione della Repubblica, la cacciata dello straniero dal suolo italiano, l’emancipazione delle masse.
Poi venne a contatto, nel 1833, con i discepoli di uno dei primi teorici del socialismo, il conte Claude de Saint Simon, che propugnavano una società diretta da banchieri illuminati e da industriali abili a promuovere le attività più redditizie. Secondo costoro, il miglioramento economico delle masse - ottenuto grazie alla costruzione di grandi opere pubbliche -  l’espansione della giustizia sociale, la diffusione dell’istruzione, delle arti e delle scienze, il rispetto delle leggi avrebbero portato la pace interna agli Stati e la felicità dei popoli.
Questa concezione utopistica, formatasi  negli anni giovanili, quando ancora la sua principale attività economica era la marineria, lo accompagnò praticamente per tutta la vita. Il libro di Saint Simon - Nuovo Cristianesimo - se lo portò appresso in tutte le sue peregrinazioni e sarà nella sua stanza a Caprera fino alla fine.

La sua visione rimase sempre  quella di un’umanità che sarebbe andata verso la pace e il benessere e che lui, diventando cosmopolita e mettendosi al servizio dell’umanità, sarebbe diventato un Eroe.

Tuttavia, l’esperienza militante in America Meridionale lo fece persuaso che avrebbe potuto dare il suo contributo a questo fine non come uomo politico, come organizzatore del consenso e come propagandista. Si rese conto che, invece, la sua leadership egli poteva esercitarla nel campo dell’azione, avendo sperimentato l’attitudine al comando militare, la freddezza rispetto al pericolo, la resistenza alle fatiche.

Ma continuiamo a seguire il dibattito  a proposito delle riforme politiche necessarie per dare all’Italia un ruolo prestigioso nel panorama internazionale, per distribuire il potere innanzitutto alla classe borghese (di malavoglia, a dire il vero, per Garibaldi) e poi alle masse, per migliorare le condizioni economiche degli stati italiani.

In Europa si andava sviluppando la rivoluzione industriale, cominciata in Inghilterra nel Settecento.

Le nuove risorse energetiche - il carbone fossile al posto del carbone di legna -, l’impiego delle macchine a vapore e delle macchine utensili, la nuova organizzazione del lavoro, nuovi e più veloci mezzi di trasporto - le ferrovie - cominciarono a stabilire una gerarchia tra gli stati europei, e l’Italia frammentata, divisa, ostile al suo interno, non poteva competere con gli stati unitari che, grazie alle loro dimensioni avevano la  possibilità sia di raccogliere le ingenti risorse finanziarie necessarie per la realizzazione delle grandi opere sia di trovare, già al loro interno, gli sbocchi commerciali necessari per sostenere la nascente produzione di massa. Cominciava a delinearsi la distinzione tra Paesi ricchi e avanzati da una parte, e Paesi poveri e arretrati dall’altra.

Occorreva, dunque, giungere a una qualche forma di unità. Gioberti, ripeto, pensò a una federazione sotto la presidenza del papa, si progettò una unione doganale tra Roma, Firenze e Torino.
Tuttavia questi progetti si scontrarono con un fattore importante: la presenza ingombrante dell’Austria in Italia.
Per questo motivo, la progettazione politica si indirizzò innanzitutto su tre obiettivi,  l’indipendenza dallo straniero, le riforme liberali, una forma di unità degli stati italiani. 

Ma l’indipendenza dallo straniero difficilmente si poteva ottenere con mezzi pacifici.
Garibaldi, in questo contesto, appare come la figura ideale che può indicare al popolo la via guerriera per il raggiungimento di questi obiettivi, soprattutto agli occhi dei repubblicani e dei mazziniani.

Il fallimento dei moti rivoluzionari popolari del 1848-49, tuttavia, convinse Garibaldi che i rapporti di forza, confrontando i modesti risultati dell’eroismo dei volontari col peso politico e militare delle grandi potenze, esigevano un raccordo tra l’iniziativa popolare e l’azione di uno Stato con il suo esercito organizzato. Questo Stato non poteva che essere il regno sabaudo, l’unico in Italia che poteva battersi contro l’Austria. A tale convinzione, pur rimanendo sempre repubblicano, come ho già avuto modo di affermare, non venne più meno, anche a costo di rompere con Mazzini e di manifestare pubblicamente il suo forte dissenso.

La sua convinzione - sintetizzata, come s’è detto, nel motto “Italia e Vittorio Emanuele” - restò salda anche quando divenne padrone di un regno, e tutti i suoi atti di governo - i decreti, le disposizioni amministrative, le nomine dei deputati, dei prodittatori, dei funzionari - che emanò man mano che avanzava con i suoi volontari verso Napoli ne furono la logica estensione.

Visto che il mio intento è quello di seguire il filone del pensiero politico di Garibaldi, ricorderò un episodio.
La sua fama di condottiero aveva ormai raggiunto tutto il mondo.
L’8 giugno 1861 il console statunitense ad Anversa, in Belgio, autorizzato dal suo governo, scrisse a Garibaldi offrendogli un comando nella armate nordiste (ricordo che la guerra di secessione negli Stati Uniti durò dal 1861 al 1865). Garibaldi rispose che avrebbe accettato, a condizione che il governo nordista proclamasse solennemente l’abolizione della schiavitù, proclamazione che avrebbe dato alla guerra di secessione un valore umanitario universale. La proposta cadde e Garibaldi non aderì all’invito.

Garibaldi “pacifista”

Garibaldi è stato un guerrafondaio, un eversore dell’ordine costituito?

Nonostante tutte le guerre e le insurrezioni che aveva guidato, negli atti più propriamente politici, da deputato, nella sua pubblicistica e nei suoi interventi in convegni, congressi e assemblee, appare chiaramente come un pacifista.
Fece sentire la sua voce, cercando di esercitare la sua influenza e l’immensa fama che si era conquistata, per richiamare la necessità della pace e della collaborazione tra i popoli.
Fu un precursore dell’idea degli Stati Uniti d’Europa.
Il 15 ottobre 1860 scrisse un memorandum alle Potenze d’Europa, dove tra l’altro è scritto:

In tale supposizione (cioè la nascita degli Stati Uniti d’Europa), non più eserciti, non più flotte; e gli immensi capitali, strappati quasi sempre ai bisogni e alla miseria dei popoli per essere prodigati in servizio di sterminio, sarebbero convertiti, invece, a vantaggio del popolo in uno sviluppo colossale dell’industria, nel miglioramento delle strade, nella costruzione dei ponti, nello scavamento dei canali, nella fondazione di stabilimenti pubblici, e nell’erezione delle scuole che torrebbero alla miseria ed all’ignoranza tante povere creature, che in tutti i paesi del mondo, qualunque sia il loro grado di civiltà, sono condannate, dall’egoismo del calcolo e dalla cattiva amministrazione delle classi privilegiate e potenti, all’abbrutimento, alla prostituzione dell’anima o della materia. (da: Giuseppe Garibaldi di A. Scirocco, ed. Corriere della Sera, 2005, pag. 318)

Rinnovò l’invito a fondare gli Stati Uniti d’Europa, nel 1862, all’Inghilterra e alla Francia. Intuì la necessità di costituire un “congresso mondiale” per giudicare le controversie tra le nazioni (una specie di ONU, insomma).
Immaginò l’eliminazione degli eserciti stabili.
Si associò agli ordini del giorno votati (siamo nel 1867) nelle assemblee degli operai parigini e berlinesi contro la guerra.
L’8 e 9 settembre 1867 partecipò al congresso internazionale per la pace e la libertà di Ginevra, acclamato dal presidente e dai congressisti. Propose di aggiungere al programma della Lega alcuni articoli che, attuati, sarebbero stati rivoluzionari: la fratellanza tra le nazioni, la diffusione capillare della scienza, la proibizione delle guerre, tranne che per quelle di liberazione da un tiranno.

Garibaldi non pensò mai a una guerra di poveri contro ricchi, le guerre o le guerriglie che egli aveva promosso ebbero come obiettivo la conquista della libertà politica.
L’affrancamento degli oppressi dal punto di vista economico, il miglioramento delle condizioni di vita, di lavoro, di istruzione delle classi popolari erano rimandati alla conquista delle libertà repubblicane e alla presa del potere politico da parte di uomini generosi e pensosi del bene comune.

Le terribili condizioni delle classi subalterne, in particolare operai metropolitani e contadini, vennero allo scoperto verso la metà del 1871, in seguito alla rivolta della Comune di Parigi, debellata nel sangue.

E questa strage di rivoltosi ebbe le sue ripercussioni anche in Italia. 
Fino a quel momento gli ideali risorgimentali - cacciata dello straniero dall’Italia, unificazione politica e, per alcuni, istituzione della repubblica - avevano oscurato la questione sociale, i problemi degli squilibri tra le classi e il malcontento dei contadini.
Diventata Roma capitale d’Italia, ora i repubblicani e i socialisti aprirono il dibattito sul che fare a proposito della questione sociale.
Quale doveva essere il rapporto tra lo Stato e la società, tra le classi dirigenti e le classi subordinate?
Garibaldi  centrò la sua attenzione sulla necessità di conseguire obiettivi di giustizia sociale senza rivolgimenti estremi.
Tuttavia il suo pensiero rimase, a questo proposito, velleitario e astratto.

Garibaldi e il suo programma politico-legislativo

Piuttosto si rivelò più pragmatico in altri momenti della vita politica italiana.
Nel 1872 cercò di unire tutte le forze democratiche per fini raggiungibili, per un programma realizzabile.
Indicò il suffragio universale come l’obiettivo fondamentale, essenziale per l’instaurazione di una vera democrazia, per la rivendicazione e l’esercizio effettivo della sovranità nazionale da parte delle masse; parlò in difesa del decentramento amministrativo e per la lotta ai privilegi della Chiesa, si batté per l’abolizione del giuramento politico di fedeltà alla monarchia.

Nel 1880, eletto di nuovo deputato, si scagliò contro la monarchia che, un tempo centro di coagulo di tutte le forze che volevano l’Italia forte e unita, compresi i repubblicani come lui, ora stava calpestando i diritti del popolo riducendolo alla miseria.

E quando nel giugno 1880 una grande folla – la folla dei popolani esclusi dal voto - si radunò a Roma per chiedere il suffragio universale, egli mandò la sua adesione, con la raccomandazione che l’agitazione fosse costante e pacifica.

Diritto incontestabile di tutti i popoli liberi è quello di mandare al governo della nazione i suoi veri rappresentanti e non gli uomini del privilegio.”

E, anticipando temi che sarebbero divenuti di senso comune solo ai nostri tempi, si oppose ai progetti di colonizzazione di terre lontane perché essi avrebbero portato alla privazione della libertà nazionale altri popoli e perché avrebbero sottratto risorse utili per lo sviluppo del nostro paese.

Digressione: la rappresentatività del Parlamento italiano.

Esattamente per confermare la novità e l’importanza di questo obiettivo politico di Garibaldi, vorrei inserire una piccola digressione a questo proposito, cioè a proposito della rappresentatività del Parlamento italiano.

Il primo Parlamento italiano (composto dalla Camera dei Deputati e dal Senato che era di nomina regia) venne eletto il 27 gennaio 1861.
Erano elettori solo i maschi alfabetizzati che avessero compiuto i 25 anni, dotati di censo oppure appartenenti a categorie agiate o comunque dotate di capacità professionali liberali - commercianti, artigiani, naturalmente industriali e agrari, professori di università, ufficiali, magistrati.
Insomma, ebbe diritto di voto solo il 2% della popolazione.
Ne uscì un Parlamento di "censo" uscito da una votazione di "censo" che votò deputati di "censo”, composto in grandissima maggioranza da ex principi, marchesi, conti, seguivano gli alti ufficiali, gli avvocati, i professori universitari, infine medici e tecnici.
La composizione dei Parlamenti successivi non fu molto diversa da questa. Contro questa evidente e sfacciata discriminazione si batterono Garibaldi e il movimento democratico.
Un parziale successo si ottenne quando, non il suffragio universale, ma una notevole estensione dei requisiti per poter esercitare il diritto di voto, fu approvata dal Parlamento nel 1882.
Nelle elezioni dell’ottobre 1882 gli elettori passarono da 620.000 a oltre 2.000.000.

Un altro settore nel quale Garibaldi lasciò la sua impronta fu quello relativo alle grandi opere. Egli fu tra i primi a comprendere  la possibilità di sviluppare l’economia attraverso le grandi opere ingegneristiche, in particolare si batté per l’imbrigliamento e la canalizzazione del Tevere che avrebbero protetto Roma dalle inondazioni e aperto una via commerciale. 

La fama di Garibaldi

La fama di Garibaldi incominciò a diffondersi nel periodo in cui era diventato il difensore della repubblica secessionista del Rio Grande del Sud, quando, nel 1838, riuscì a eludere la sorveglianza dei brasiliani, che tenevano sotto assedio la foce del fiume Camaqua. Con una manovra di aggiramento fece  trasportare due imbarcazioni per via di terra tra la vegetazione, per raggiungere l’Oceano Atlantico.
Questa impresa divenne leggendaria e magnificata dai giornali sudamericani.
La definitiva affermazione la raggiunse con la vittoria di San Antonio del Salto, insieme con la flotta anglofrancese in lotta contro la dittatura argentina e a difesa della piccola repubblica dell’Uruguay.
La sua capacità di rompere l’assedio della cittadina ebbe una ripercussione enorme. I giornali magnificarono l’impresa, mettendo in evidenza anche il suo disinteresse, avendo egli rifiutato le ricompense a cui aveva diritto.
Parlarono di lui i giornali inglesi, francesi, tedeschi, statunitensi.
Divenne il personaggio di alcuni romanzi di avventura, molti giornalisti andavano a trovarlo, raccontando le sue imprese anche con molti particolari inventati.
Non sto adesso a elencare tutte le occasioni, le imprese e le avventure che accrebbero la sua fama. Fatto sta, che quando iniziò l’impresa dei Mille, Garibaldi era già famoso in tutto il mondo.
Fu seguito da una miriadi di giornalisti, la sua risalita dalla Sicilia a Napoli fu raccontata quasi giorno per giorno da tutti i periodici europei e mondiali - dagli Stati Uniti all’Australia - perfino nella più sperduta cittadina siberiana vennero seguite le vicende di cui era il protagonista assoluto.
Le strabilianti notizie provenienti dalla Sicilia venivano immediatamente diffuse nel mondo dal telegrafo. In Inghilterra si rinnovarono i ricordi delle battaglie uruguayane, della difesa di Roma del 1849, si rinfocolarono i sentimenti di antipatia verso i Borboni.
Divenne suo fervente ammiratore Alexandre Dumas, il famoso romanziere francese, che si trovava in Sicilia con il suo panfilo proprio nel momento dello sbarco a Marsala.
Nel marzo del 1864 si recò a Londra dopo numerose insistenze dei suoi amici inglesi. Si attendevano 100.000 persone, invece ne arrivarono 500.000. Vennero date rappresentazioni di opere liriche in suo onore, andarono a trovarlo principi, duchi e duchesse, il primo ministro, i membri del governo.  Vennero raccolti fondi che lui rifiutò, tranne, in seguito, il dono della metà dell’isola di Caprera.

1864: Garibaldi a Londra



Insomma, Garibaldi divenne una leggenda vivente. Nessun uomo come lui ebbe, in vita, tante manifestazioni di ammirazione.

E le sue imprese furono enormemente favorite dalla pressione dell’opinione pubblica, che, grazie ai giornali e alle riviste periodiche, cominciava a formarsi e a far sentire la sua influenza. Questa pressione, queste manifestazioni di ammirazione e di simpatia, soprattutto quelle dell’opinione pubblica inglese,  gli furono particolarmente utili nel corso della campagna dei Mille. Senza il suo appoggio e, di concerto, senza l’appoggio politico e strategico del governo inglese, Garibaldi non sarebbe mai riuscito a sbarcare prima in Sicilia e poi in Calabria.

La fama di Garibaldi non si è certo spenta alla sua morte.
Tornò alla ribalta nella primavera del 1943, quando venne fondata la prima formazione partigiana italiana.
Il suo nome  verrà accostato anche a Che Guevara che al pari di Garibaldi è ricordato non come un patriota che si è battuto per il suo popolo, ma come il simbolo della libertà per tutti gli uomini della Terra. (Alfonso Scirocco, biografo di Garibaldi, professore di Storia del Risorgimento all’Università di Napoli)

Il disinteresse di Garibaldi

Ho iniziato il mio lavoro con una domanda lasciata in sospeso. Perché il lettore si formi una risposta documentata, vale forse la pena che io ripercorra la biografia di Garibaldi, elencando tutte le circostanze in cui ha dimostrato generosità e disinteresse, pur quando nessuno avrebbe potuto addebitargli alcunché di illecito, se avesse scelto di accettare i beni offertigli a titolo di ricompensa per i suoi servigi.
Traggo l’elenco dei fatti dalla biografia di Alfonso Scirocco Giuseppe Garibaldi, riedito dal Corriere della Sera nel novembre del 2005.





  • Nella guerra corsara  autorizzata dal governo del Rio Grande do Sul, Garibaldi e il suo equipaggio attaccano e conquistano una lancia, non lontana da Rio. Garibaldi si limita a prendere una pompa per l’acqua, quattro barili di vino e un orologio d’argento. Quest’ultimo, poiché non viene considerata una preda di guerra, viene ricambiato con l’equivalente in carne secca. Inoltre,  prende con sé uno schiavo, il negro Antonio, e lo affranca il 4 maggio 1837” (pag. 41)
  • Durante il soggiorno a Montevideo con Anita, si racconta della povertà della casa, priva addirittura di sedie, la mancanza di soldi anche per acquistare candele e abiti: eppure Garibaldi rifiutò compensi e agevolazioni che pure gli erano dovuti, pur di mantenere un carattere di idealità alla sua presenza in Uruguay”. (pag. 78)
  • Nel gennaio 1845, il generale Rivera (presidente della repubblica uruguayana) fece donazione alla Legione “della metà delle terre di sua proprietà poste tra l’Arroyo de Las Averias e l’Arroyo Grande a nord del Rio Negro e della metà delle mandrie e degli edifici esistenti in quei terreni”. L’anno precedente aveva fatto una simile offerta, in aggiunta al compenso stabilito all’atto dell’arruolamento, alla Legione Francese, che l’aveva accettata. Garibaldi fece valere gli ideali socialisti e solidaristici che lo avevano portato in America, e indusse anche gli ufficiali della Legione a rifiutare l’offerta. Sostenne, nella lettera di risposta, che loro stavano combattendo per la libertà dei popoli, “senza desiderare né accettare distinzione, né premi di sorta” (pag. 93-94)
  • Dopo la vittoria di San Antonio nel febbraio del 1846 che vide per la prima volta gli uruguayani prevalere in un combattimento terrestre contro gli argentini, il governo uruguayano decretò la promozione di Garibaldi e di tutti gli ufficiali al grado superiore; l’iscrizione in lettere d’oro sulla bandiera della Legione delle parole “Atto di valore dell’8 febbraio, compiuto dalla Legione italiana agli ordini di Garibaldi”; l’iscrizione in lettere d’oro dei nomi dei combattenti di San Antonio in una lapide…; la corresponsione alle famiglie dei caduti di una pensione  doppia di quella spettante… Il decreto fu notificato solennemente nel corso di una grande parata di tutta la guarnigione.  Con una lettera del 4 marzo  rifiutò le promozioni per sé e per i compagni, riaffermando che aveva preso le armi ' a favore di un popolo che la fatalità poneva alla mercé di un tiranno'” (pag. 101-102)
  • Pare che nel 1847 il dittatore argentino Rosas suggerisca a Oribe (generale argentino ai suoi ordini) di offrirgli 30.000 dollari per convincerlo a passare coi blancos (federalisti sostenitori di Rosas, nella guerra contro l’Uruguay), e che l’alleato gli risponda che è impossibile comprarlo: “È un selvaggio dalla testa dura” (pag. 112)
  • Dopo la fuga attraverso gli Appennini, in seguito alla caduta della Repubblica Romana, e la tragica scomparsa della sua amata Anita, trovatosi in Liguria (siamo nel settembre del 1849) senza mezzi economici, “aveva accettato per la famiglia un sussidio dal governo, e aveva portato alla madre 2000 lire. Per sé in un primo tempo l’aveva rifiutato, secondo il suo stile: nei difficili momenti dell’agosto aveva garbatamente respinto le elargizioni offertegli da facoltosi patrioti. …Finì con l’accettare il sussidio di 300 lire mensili, assegnatogli per il tempo della sua permanenza a Tunisi, dove il governo piemontese sperava che dimorasse” (pag 162)
  • Dopo l’8 novembre 1860, consegnata l’Italia meridionale a Vittorio Emanuele, quale ricompensa “gli furono offerte cariche e prebende che secondo il solito, rifiutò: il collare dell’Annunziata (massima onorificenza del regno), un titolo nobiliare, la promozione a generale d’armata, un castello, una nave, una tenuta per Menotti, una dote per Teresita, la nomina di Ricciotti ad aiutante di campo del re. Partì (alla volta dell’isola di Caprera) all’alba del 9 novembre [ … ]. Delle ricchezze del regno portava qualche centinaio di lire (messe da parte da Basso - segretario devoto, con lui dal 1849 - a sua insaputa); alcuni pacchi di caffè e di zucchero, un sacco di legumi, un sacco di sementi, una balla di merluzzo secco” (pag. 267).
  • Kossuth (uomo politico ungherese sostenitore dell’indipendenza dell’Ungheria dal dominio austriaco), “quando si diffonde la notizia che sta per tornare a Caprera senza alcun compenso, confida a un amico che una decisione del genere sarebbe senza precedenti nella storia dell’umanità, e oscurerebbe lo stesso esempio di Cincinnato” (pag. 268)
  • I suoi ammiratori aristocratici (siamo tra la fine di aprile e i primi di maggio del 1864, nel corso del suo trionfale viaggio in Inghilterra) organizzano una raccolta di denaro quale sollievo alla sua povertà. Pronto ad accettare somme anche ingenti per le imprese militari, Garibaldi rifiuta il dono personale: il 6 maggio fa comunicare che il denaro sarà restituito ai donatori. Tuttavia a fine 1864 accetterà un veliero acquistato con fondi raccolti per iniziativa del colonnello Chambers, e nel 1865 la metà dell’isola di Caprera di proprietà della Collins, acquistata con una colletta promossa dalla Salis Schwabe” (pag. 296)
Le Memorie curate da Alberto Burgos

Garibaldi, fra l’altro, si cimentò anche con la letteratura.
Scrisse per ricavare qualche soldo dai diritti di autore perché le preoccupazioni finanziarie lo assillarono nell’ultima parte della sua vita e anche per consegnare una eredità di progetti, affetti, sentimenti, pensieri, idee nel campo della politica e della religione.

I suoi romanzi - Clelia, Cantoni il volontario, i Mille, Manlio - e il suo “Poema autobiografico” in fin dei conti non gli procurarono grandi guadagni e, secondo il parere dei critici, non sono particolarmente efficaci, perché  le azione narrate e i personaggi descritti sono continuamente interrotti dalle digressioni che tendono ad ammonire, a predicare, a esaltare.

Il libro al quale lavorò a più riprese, le sue Memorie appunto (la prima stesura è del 1859, l’ultima nel 1871-72) venne pubblicato da suo figlio Menotti nel 1888.

Pochi lettori, tuttavia, si sono cimentati con questo libro, soprattutto i lettori moderni. Che cosa ne ha impedito il successo duraturo? Eppure avrebbe tutte le caratteristiche per interessare, anzi affascinare, non solo gli storici ma anche i comuni lettori, quelli che amano i libri di avventure: vicende eroiche e amori appassionati, luoghi esotici, vasti e vari orizzonti.
Questo libro aveva alcuni limiti per un lettore moderno: la sintassi prolissa, il lessico antiquato, l’oratoria amplificata. Quest’ultima, poi, appesantiva e spezzettava la narrazione dei fatti e la descrizione degli ambienti e dei paesaggi. Garibaldi non faceva scaturire i suoi convincimenti ideologici, etici e politici solo dalla narrazione dei fatti ma tendeva a rafforzarli con interventi retorici e declamatori, con invettive esplicite ed insistenti.
Era possibile sceverare la freschezza narrativa (con taglio cinematografico, oserei dire), la drammaticità degli avvenimenti, l’eroismo dei personaggi dalla pesantezza dell’oratoria e della retorica e dalla vetustà del linguaggio?
Alberto Burgos si è assunto questo compito, ritessendo pazientemente la trama del racconto con l’arte certosina del filologo e rimanendo sempre fedele al suo assunto: rendere fruibile questo libro di grande importanza storica, da una parte, ma anche di grande godibilità estetica, dall’altra, al lettore moderno.
E c’è pienamente riuscito.  

Per dimostrare la serietà del suo lavoro filologico e del felice esito che ne è scaturito, ho voluto giustapporre qui sotto su due colonne, un capitolo del libro nella sua stesura originale e nella riproposizione moderna operata da Burgos. Leggere per credere.

il testo originale

A MILANO

Il proposito  nostro, dalla partenza d'America, era stato di servire l'Italia, e combattere i nemici di lei, comunque fossero i colori politici, che guidassero i nostri alla guerra d'emancipazione. La maggioranza dei concittadini manifestava lo stesso voto; ed io dovevo riunire il piccolo nostro contingente a chi combatteva la guerra Santa. Era Carlo Alberto il condottiero di chi pugnava per l'Italia; ed io mi dirigevo a Roverbella, quartier generale principale allora, ad offrire senza rancori il mio braccio e quello de' compagni, a colui che mi condannava a morte nel '34. Lo vidi; conobbi diffidenza nell'accogliermi; e deplorai, nelle titubanze ed incertezze di quell'uomo, il destino maleaffidato della nostra povera patria.
lo avrei servito l'ltalia agli ordini di quel re collo stesso fervore, come se repubblicana fosse; ed avrei trascinato sullo stesso sentiero di abnegazione quella gioventù che mi concedeva fiducia.
Far l'ltalia una, e libera dalle pestilenze straniere era la meta mia, e credo lo fosse dei più in quell'epoca. L'ltalia non avrebbe pagato d'ingratitudine, chi la liberava.lo non solleverò la lapide di quel defunto per pronunziarmi sul suo contegno: ne lascio alla storia il giudizio. Dirò soltanto; che chiamato dalla posizione, dalle circostanze e dalla generalità degli Italiani a guida nella guerra di redenzione, ei non corrispose alla concepita fiducia; e non solo non seppe adoperare gli elementi immensi, di cui poteva disporre, ma ne fu l'oggetto principale di mina.
Da Genova marciavano i miei compagni verso Milano, sotto l'infausta impressione generalmente prevalsa, e senza dubbio suscitata da nemici, dell'inutilità, e perniciosa influenza dei corpi volontari; mentre io correvo da codesta città a Roverbella, da Roverbella a Torino, e quindi a Milano, senza poter ottenere di servire il mio paese, sotto nessun titolo.
Casati, del governo provvisorio di Lombardia, fu l'unico, che credette potersi valere dell'opera nostra, aggregandoci all'esercito lombardo. Collo stabilirmi in Milano, terminai dunque le mie scorrerie da vagabondo.In Milano, il governo provvisorio incaricavami dell'organizzazione di vari frammenti di corpi, includendovi i pochi miei compagni d' America; e le cose non sarebbero andate male, senza l'ingerenza malefica d'un ministro regio, Sobrero; le di cui mene, ed indefinibili procedimenti mi raccapricciano tuttora. [...]
La febbre acquistata nel mio viaggio a Roverbella, e le conferenze con Sobrero, che fra le altre antipatie aveva quella della camicia rossa, che diceva: troppo apparente alle fucilate nemiche, mi resero il soggiorno della bella e patriottica città delle cinque giornate, insopportabile; e respirai giubilante, il giorno in cui sortivo dalla capitale della Lombardia, diretto su Bergamo con un pugno di gente nuda, e mal armata, un'altra volta per organizzare, destino niente adeguato all'indole mia, ed alle scarse mie cognizioni di teorie militari.
Si osservi che tale mia gente, componevasi per la maggior parte di depositi o di scarti dei corpi volontari che militavano nel Tirolo, viziati da lunga dimora nella capitale.
Fu brevissimo il nostro soggiorno in Bergamo. Mentre si erano prese alcune misure, ed osservazioni di difesa, mentre si trattava, con ogni mezzo possibile, di chiamare alle armi quelle brave popolazioni e si spedivano agenti nelle valli e montagne a riunirne i robusti abitatori, per mezzo principalmente, dei nostri incomparabili Davide e Camuzzi la di cui influenza era somma e le di cui opere faticose finirono per riuscire intieramente nulle dalla precipitata partenza, ordine perentorio da Milano ci richiamava, ove raggiungere l'esercito nostro in ritirata davanti agli austriaci, e per prender parte alla gran battaglia, che doveva aver luogo presso quella città sotto buoni o cattivi auspici. Si trattava finalmente di combattere; e non vi fu tempo perduto. [...]
In Trecate si lasciarono bagagli e sacchi per poter marciare più celeremente. Vicini a Monza si ebbe l'ordine di operare sulla destra del nemico, e già si pigliavano le disposizioni all'uopo, mandando esploratori a cavallo per saperne i movimenti e le disposizioni. Ma, giunti a Monza, vi giungeva contemporaneamente la notizia della capitolazione e dell'armistizio; e torrenti di fuggitivi non tardarono ad ingombrar le strade. [...]
Armistizio, capitolazione, fuga, furon notizie che ci colpiron come fulmine l'una dopo l'altra; e con esse, la paura e la demoralizzazione, tra popolo, nelle fila e dovunque. Certi codardi, che sventuratamente trovavansi tra la mia gente, abbandonarono i fucili sulla stessa piazza di Monza, e cominciarono a fuggire in tutte le direzioni. I buoni adirati, e scandalizzati a tanta vergogna, puntavan le armi per fucilarli; e per fortuna io e gli ufficiali, potemmo prevenire l'eccidio, ed impedire un completo scompiglio. Castigaronsi alcuni dei fuggenti: altri furono degradati e cacciati.
Tale stato di cose mi decise ad allontanarmi da quel teatro di sciagure, e dirigermi verso Corno, coll'intenzione di trattenermi in quell'alpestre paese, aspettando il risultato degli eventi, e deciso a far la guerra di bande, se altro non si poteva.
Da Monza a Corno, mi comparì Mazzini colla sua bandiera «Dio e popolo». Egli si riunì a noi in marcia, e seguì a noi riunito sino a Corno. Da Corno passò in Svizzera, mentre io mi disponevo di tener la campagna nei monti comaschi. Molti dei suoi aderenti, o supposti, lo accompagnarono e lo seguirono sulla terra straniera. Ciò naturalmente servì di stimolo ad altri per abbandonarci:e si diradarono quindi le nostre fila.
A Milano io avevo commesso l'errore, che Mazzini mai mi ha perdonato, di suggerirli non esser bene di trattenere una quantità di giovani colla promessa di poter proclamare la repubblica, mentre esercito e volontari combattevano gli austriaci. Giunti in Como vi trovammo meno disordine però non meno lo sgomento cagionato dai successi funesti di Milano e dell'esercito.

il testo riscritto

A MILANO

La nostra idea, quando lasciammo l’America, era di servire l’Italia e di combattere i suoi nemici, qualunque fosse l’orientamento politico di chi avrebbe guidato il paese verso la libertà. La maggioranza dei concittadini aveva la stessa opinione, ed io dovevo unire il mio piccolo contingente a chi combatteva la guerra santa: era Carlo Alberto il condottiero di chi lottava per l’Italia, ed io mi dirigevo a Roverbella, al quartier generale, per offrire senza rancore il mio braccio e quello dei miei compagni a colui che mi aveva condannato a morte nel ‘34. Lo vidi e avvertii tutta la sua diffidenza; e deplorai che il destino della nostra povera patria fosse nelle indecisioni e nei dubbi di quell’uomo.
Io avrei servito l’Italia del re come se fosse stata repubblicana, con lo stesso slancio, e avrei trascinato con me tutta la gioventù che si fidava di me.
Rendere l’Italia unita e libera dal mortale straniero, questo era il mio scopo, e credo che allora lo fosse della maggior parte delle persone. L’Italia non avrebbe trattato con ingratitudine chi la liberava.
Non solleverò la lapide di quel defunto per criticare il suo contegno: lascio che sia la storia a giudicare. Dirò soltanto che egli, chiamato dal suo ruolo, dalle circostanze e dall’insieme degli italiani, a guidare la liberazione, non meritò la fiducia riposta in lui: non solo non seppe servirsi dei grandi mezzi di cui disponeva, ma fu la principale causa del loro disastro.
Da Genova marciavamo verso Milano, consapevoli dell’opinione generalmente diffusa, e quindi senz’altro accreditata dai nemici, che cioè l’azione dei corpi volontari fosse inutile e dannosa: andavo da Genova a Roverbella, da lì a Torino, e quindi a Milano, senza poter ottenere di servire il mio paese, senza alcun incarico.
Casati, capo del governo provvisorio di Milano, fu l’unico che ritenne di avvalersi di noi, e ci aggregò all’esercito lombardo: così, stabilendomi a Milano, terminai i miei vagabondaggi.  Il governo provvisorio m’incaricò di organizzare i vari corpi, associandovi anche i miei compagni d’America, e le cose non sarebbero andate male senza l’ingerenza malefica di un ministro regio, Sobrero, le cui sordide manovre mi disgustano ancora. [...]
 La febbre da cui ero stato colpito nel viaggio a Roverbella e gli incontri con Sobrero, che fra le varie antipatie aveva quella per la camicia rossa, sostenendo che era un ottimo bersaglio per i nemici, mi resero insopportabile il soggiorno nella bella e patriottica città delle cinque giornate, e respirai di sollievo il giorno in cui lasciai la capitale della Lombardia diretto a Bergamo con un pugno di uomini senza mezzi e male armati: ancora una volta avevo un compito organizzativo, incarico assai poco indicato per il mio carattere e le mie scarse cognizioni di teoria militare.
È da notare che i miei uomini erano per la maggior parte riserve o scarti dei corpi volontari che operavano nel Tirolo, impigriti dal lungo soggiorno nella capitale.  
La permanenza a Bergamo fu brevissima: stavamo approntando le prime misure di difesa e cercavamo con tutti i mezzi di arruolare uomini, inviando i reclutatori nelle valli e fra le montagne per aggregarne i robusti abitanti, e ciò soprattutto tramite gli insostituibili Davide e Camuzzi, che avevano un grande ascendente ma le cui fatiche furono annullate dall’improvvisa partenza; un ordine perentorio, infatti, ci richiamò a Milano per raggiungere il grosso dell’esercito in ritirata e prendere parte alla battaglia che ci sarebbe stata vicino alla città, a qualsiasi condizione: finalmente era venuto il momento di combattere e non c’era tempo da perdere. [...]
Lasciati a Tricate i bagagli e i sacchi per poter marciare più in fretta, vicino a Monza ci venne ordinato di operare sulla destra e stavamo preparandoci inviando esploratori a cavallo per conoscere posizioni e intendimenti del nemico: ma, arrivati in città, insieme a noi arrivò anche la notizia della capitolazione, dell’armistizio, e fiumi di fuggitivi non tardarono a intasare le strade.  
Armistizio, capitolazione, fuga: una dopo l’altra queste notizie ci colpirono come un fulmine, mentre paura e demoralizzazione si diffondevano tra la popolazione, fra i soldati, ovunque. Alcuni vigliacchi che purtroppo si trovavano coi miei abbandonarono i fucili sulla stessa piazza di Monza e scapparono in tutte le direzioni: i veri soldati, incolleriti e scandalizzati per quest’infamia, spianarono le armi per fucilarli, ma per fortuna io e gli ufficiali riuscimmo a prevenire la strage e ad evitare il caos; punimmo alcuni fuggitivi, gli altri furono degradati e cacciati. [...]
La situazione mi spinse ad abbandonare quel teatro di sciagure e a dirigermi verso Como, con l’intenzione di fermarmi lì ad aspettare gli eventi, deciso a portare avanti la guerriglia, se altro non si poteva fare.
Durante il tragitto comparve Mazzini con la sua bandiera «Dio e popolo». Si unì a noi fino a Como e da lì passò in Svizzera, mentre io mi preparavo alla guerra per bande sui monti comaschi; molti suoi seguaci, o supposti tali, lo seguirono in terra straniera e ciò naturalmente spinse altri ancora ad abbandonarci, assottigliando ancor di più le nostre file.
A Milano avevo commesso l’errore, che Mazzini non mi ha mai perdonato, di dirgli che non era una buona cosa trattenere tanti giovani con la promessa di proclamare la repubblica, mentre esercito e volontari combattevano contro gli austriaci.    
A Como trovammo più ordine, ma non meno sgomento per quanto era successo a Milano e per la sconfitta militare.