1807 |
Garibaldi nasce il 4 luglio a Nizza |
1824-33 |
Come marinaio
naviga nel Mediterraneo |
1832 |
Consegue
la patente di capitano di seconda classe |
1833 |
Aderisce
alle teorie sansimoniane e di Mazzini |
1834 |
Partecipa
a un moto mazziniano a Genova ed è condannato a morte da
un tribunale militare |
1834-5 |
A
Marsiglia, dove fa il marinaio. Aderisce alla Giovine Europa.
Parte per il Brasile |
1836 |
A Rio de
Janeiro fonda un’associazione mazziniana tra gli esuli italiani |
1837
|
Corsaro
al servizio della repubblica del Rio Grande do Sul, che lotta
per ottenere l’indipendenza dal Brasile. Sul Rio della Plata
viene ferito, si rifugia in Argentina e resta per alcuni mesi
in prigionia a Galeguay. Liberato, si ferma per qualche tempo
a Montevideo |
1838-41 |
Passa nel
Rio Grande e combatte contro i brasiliani. A Laguna, nel 1839, incontra
Anita |
1840 |
Nasce il
figlio Domenico, che chiamerà sempre Menotti |
1841-8 |
Torna a Montevideo:
combatte per l'Uruguay contro l’Argentina, che appoggia Oribe |
1842 |
Compie una difficile una spedizione sul fiume Paranà, poi
partecipa alla difesa di Montevideo |
1845 |
Comanda una
spedizione sul fiume Uruguay |
1846
|
Vince clamorosamente la battaglia di S. Antonio al Salto, poi
ritorna a difendere la capitale: la fama delle sue imprese si
diffonde in Europa. A Montevideo nascono Rosita, Teresita e Ricciotti |
1848
|
In
aprile torna in Italia: offre la sua spada a Carlo Alberto, che
però non accetta; ottiene un comando dal governo provvisorio
milanese. Dopo l'armistizio Salasco in Lombardia organizza la
guerriglia antiaustriaca. Rientra a Nizza, quindi con un gruppo
di volontari s’imbarca per la Sicilia, in rivolta contro
i Borboni; a Livorno decide di restare in Toscana, poi passa nello
Stato pontificio |
1849
|
Combatte in difesa della repubblica romana. Caduta la repubblica,
a luglio, decide di raggiungere con alcune migliaia di volontari
Venezia, assediata dagli austriaci; costretto a sciogliere le
truppe a San Marino, con pochi compagni cerca, inutilmente, di
raggiungere comunque Venezia; in agosto, muore Anita e lui a fugge
a fatica; in settembre è in salvo in Liguria |
1849-53
|
Riprende
la via dell'esilio: dopo Tangeri, si reca negli Stati Uniti. Naviga
nel Pacifico. A fine 1853 s’imbarca per l’Inghilterra |
1854-9 |
Torna in
Italia e acquista parte dell'isola di Caprera. Aderisce alla Società
Nazionale |
Nella 2a guerra d'indipendenza è generale dell’esercito
piemontese e comanda i Cacciatori delle Alpi. Da Battistina Raveo
ha la figlia Anita. Dopo l'armistizio di Villafranca comando l’esercito
della Lega dell’Italia centrale: si dimette quando gli è
impedito di invadere lo Stato pontificio |
1859
|
1860
|
Sposa
la marchesina Raimondi, da cui si divide pochi giorni dopo. Si
oppone invano alla cessione di Nizza alla Francia. Il 6 maggio
parte da Quarto con mille volontari: sbarca a Marsala e assume
la dittatura; batte i borbonici a Calatafimi e prende Palermo;
il 20 luglio vince ancora a Milazzo, il 19 agosto sbarca in Calabria,
il 7 settembre entra a Napoli; il 2 ottobre batte definitivamente
i borbonici sul Volturno. Dopo il plebiscito incontra a Teano
Vittorio Emanuele II e rimette il potere nelle sue mani. Riparte
per Caprera |
1861
|
Nel Parlamento dell’appena costituito regno d’Italia
ha un duro scontro con Cavour sul trattamento riservato ai volontari |
1862
|
Per liberare Roma parte dalla Sicilia con 2.000 volontari, ma
il 29 agosto è fermato sull'Aspromonte dall'esercito italiano:
ferito, è tenuto prigioniero fino a ottobre |
1864 |
In aprile
compie un trionfale viaggio in Inghilterra |
1866
|
Nella terza guerra d’indipendenza comanda un corpo di Volontari
che combatte in Trentino: a Bezzecca conquista l'unica vittoria
italiana |
1867
|
Da
Francesca Armosino ha la figlia Clelia. Riprende il progetto di
liberare Roma. Partecipa al Congresso per la pace di Ginevra.
In ottobre è a capo dei volontari che hanno invaso il Lazio,
ma il 3 novembre è sconfitto duramente a Mentana |
1870
|
Dall’ottobre
al gennaio 1871 partecipa alla guerra franco-prussiana, in difesa
della repubblica
Comincia a scrivere (tre romanzi e le Memorie) |
1871 |
Torna a Caprera.
Prende posizione in favore della Comune di Parigi e del socialismo |
1872
|
Alla morte di Mazzini ordina che ai funerali ci sia la bandiera
dei Mille. Cerca di unire le forze della democrazia italiana col
Patto di Roma |
1873 |
Da Francesca
Armosino nasce il figlio Manlio |
1875 |
Come deputato
lavora a un progetto per la canalizzazione del Tevere |
1879 |
In aprile
fonda la Lega della Democrazia, movimento per il suffragio universale |
1880 |
Ottiene l’annullamento
del matrimonio con la Raimondi e sposa Francesca Armosino |
1882 |
Ritorna a
Napoli e a Palermo. Muore a Caprera il 2 giugno |
Nato a Nizza il
4 luglio 1807, fin da bambino mostrò di preferire di gran lunga
la caccia e il mare alle lezioni di Don Giaume, il suo precettore, anche
se la storia antica rimase sempre una sua grande passione. Ai primi
imbarchi sulla nave del padre, il capitano Domenico, seguirono molti
altri viaggi, e dal 1825 fece praticamente sempre il marinaio, acquisendo
una notevole esperienza, che nel 1832 gli consentì di conseguire
il diploma di capitano di lungo corso.
In quel primo periodo di viaggi ebbe modo di entrare in contatto con
persone e culture le più varie, e ciò contribuì
in modo decisivo a fargli acquisire una mentalità decisamente
cosmopolita; innestandosi su quello spirito libertario che era uno dei
tratti essenziali della sua personalità, il contatto coi combattenti
per la libertà della Grecia e con vari seguaci delle dottrine
di Saint-Simon formò il nucleo di quello che fu il credo politico
di Garibaldi: la fratellanza universale, l’odio
verso ogni forma di dispotismo e di oscurantismo clericale, che col
tempo assunsero i connotati di un socialismo utopistico e radicale.
L’incontro con Mazzini, nel 1833, a Marsiglia,
spinse Garibaldi a impegnarsi direttamente nelle vicende italiane: di
questa attività cospirativa non si hanno molte notizie, né
egli fu mai molto generoso di informazioni al riguardo, tanto che giustamente
è stato notato come ciò poi gli consentì, quando
i rapporti con Mazzini si guastarono, di ridimensionare il suo debito
politico verso il fondatore della Giovine Italia. Il maldestro tentativo
insurrezionale di Genova, nel ‘34, costrinse Garibaldi all’esilio,
addirittura per sfuggire alla condanna a morte da parte
del Piemonte, e probabilmente fu questa drammatica svolta ad imprimere
una brusca accelerazione al passaggio da giovane avventuriero ribelle
a quello che molti anni più tardi, in tutt’altro contesto,
verrà definito "rivoluzionario di professione".
Forse è proprio in questo periodo che Garibaldi entra nella massoneria,
ma è certo che ne faceva parte quando arrivò a Montevideo.
Ovviamente nelle Memorie egli non farà parola di tale
adesione, anche se molti anni più tardi questa sua appartenenza
fu piuttosto nota, in particolare quando, dopo il 1860, raggiungerà
addirittura il grado supremo di Gran Maestro; anzi, per qualche periodo
fu Gran Maestro di entrambe le fazioni massoniche italiane, in concorrenza
tra loro, volendo egli riunificarle…
Non possedeva ancora "l’impressionante e affascinante
personalità degli anni a venire. Era un rozzo e onesto marinaio,
abbastanza bravo nel suo mestiere […]. I registri della
leva di mare ce lo descrivono alto un po’ meno di un metro e settanta,
coi capelli rossastri fluttuanti volentieri sulle spalle. Si notava
in lui una certa delicatezza femminile, gli piaceva fare spesso il bagno
e dedicare attenzioni minute alle mani, ai denti, ai capelli: tutte
cose che van messe a raffronto con la virile leggenda della sua successiva
vita di rude soldato." [i
riferimenti bibliografici completi qui vengono omessi]
Dopo un anno trascorso fra Marsiglia e Tunisi, Garibaldi si unì
ai tanti che in quell’epoca lasciavano l’Europa per tentare
la sorte in America, ma evidentemente non era scritto
che egli dovesse far fortuna: arrivato a Rio de Janeiro, riuscì
ad acquistare una piccola imbarcazione con cui si mise a commerciare
lungo la costa, però la sua abilità mercantile era davvero
molto modesta e ben presto lasciò questa attività. La
passione politica era rivolta all’Italia, ma sembrava davvero
impossibile fare qualcosa di concreto per il proprio paese, e così
Garibaldi si lasciò coinvolgere in una lotta che con la rivoluzione
in realtà non aveva molto a che fare.
Dopo l’indipendenza dalla Spagna e dal Portogallo le ex colonie
vissero un lunghissimo periodo di lotte intestine, sostanzialmente imperniate
sul conflitto d’interessi fra i vari gruppi delle borghesie nazionali;
nella parte meridionale dell’immenso impero brasiliano,
la provincia del Rio Grande, si era andato formando
un forte movimento separatista, che aveva proclamato l’indipendenza
e dato vita ad un nuovo Stato: immediata fu la reazione del governo
centrale e, pur non avendo particolari ragioni per schierarsi coi separatisti,
quando nel 1837 il presidente del nuovo Stato, Bento Gonçales,
gli offrì il comando di una flotta Garibaldi accettò con
entusiasmo: in realtà si trattava di alcuni legni equipaggiati
alla meglio, ma l’importante era potersi mettere al servizio di
una causa che parlava di "libertà".
Furono tre anni assai avventurosi: Garibaldi si dimostrò un abilissimo corsaro, e la sua fama si diffuse rapidamente, alimentata
anche dal fatto che egli effettivamente non agì mai per il profitto
personale ma mise sempre al primo posto la difesa dei deboli. Dopo un
naufragio particolarmente drammatico Garibaldi si trovò a riflettere
sulla propria esistenza e concluse che quella vita spericolata rischiava
di avvitarsi nella solitudine e nel vuoto di prospettive: quasi come
un generale che formula un piano di battaglia, decise che era "strategicamente"
essenziale avere al proprio fianco una donna forte, bella, coraggiosa,
e non tardò a trovarla. La narrazione che egli fa di questo incontro,
e di come i due si vollero subito, magneticamente, rivela fin troppo
scopertamente che tutta la sua autobiografia è davvero pensata
per i lettori: "Garibaldi pensa veramente alla sua leggenda […] tutto sommato egli ci dice quello che gli sarebbe piaciuto
vivere, come vuole raffigurarsi il suo passato."
In realtà accadde che Garibaldi scese a terra, forse davvero
dopo aver scorto col cannocchiale quella splendida donna, e incontrò
un tale, conosciuto a suo tempo, che lo invitò a casa sua; la
moglie di costui era giovane, di una bellezza semplice e altera al tempo
stesso, andata sposa controvoglia ad un uomo mediocre: come darle torto
se vide in quell’affascinante straniero l’occasione per
una vita nuova e scappò con lui? Aninhas Ribeiro da Silva, Anita,
si può dire che si consacrò a Garibaldi, ma lo fece da
donna libera, con un’audacia ed un’energia ben lontane dal
carattere di una donna europea dell’epoca, e con un coraggio virile
(così lo definisce Garibaldi) che la vide combattere come "un
fulmine di guerra": e si può senz’altro dire
che Garibaldi non solo amò la donna fiera e sensuale, la madre
dei suoi tre primi figli, ma ammirò senza riserve la compagna
di lotta che cavalcava come un gaucho, spronava gli uomini
nei momenti più duri e sapeva sparare con la pistola e…
col cannone.
Il modo in cui si sviluppò il conflitto, trasformatosi da lotta
per l’indipendenza in guerra civile tra fazioni entrambe interessate
soprattutto al potere, fu una lezione durissima ma salutare per Garibaldi:
da un lato si lasciò definitivamente dietro le spalle certe ingenuità
in merito a coloro che parlano di libertà, dall’altro imparò
(e ne fece forse la prima regola del condottiero) quanto fosse essenziale
per un soldato avere l’appoggio popolare e, soprattutto,
essere fortemente convinto della causa per cui andava a combattere.
In realtà, dopo una breve parentesi di tranquilla vita borghese
(un po’ di insegnamento, altri sfortunati tentativi commerciali),
Garibaldi si trovò nuovamente coinvolto nel turbolento clima
politico locale; in Uruguay, da poco resosi indipendente
dall'Argentina, il primo presidente del nuovo Stato,
Rivera, non aveva accettato di buon grado il termine del proprio mandato
e aveva deposto il suo successore, Oribe: anche in questo caso non si
può ragionevolmente distinguere tra un raggruppamento schierato
dalla parte del privilegio e un altro su posizioni liberali, trattandosi
sostanzialmente di una lotta per il potere tra gruppi che esprimevano
i propri interessi particolaristici, anche se in effetti Oribe non si
fece scrupolo di chiedere l’appoggio di coloro che erano stati
i padroni stranieri dell’Uruguay, nella fattispecie il generale
Rosas, dittatore dell’Argentina. Fu certamente questo aspetto
che convinse Garibaldi, stabilitosi a Montevideo, a schierarsi dalla
parte di Rivera e a metà del 1842 assunse il comando di una piccola
flotta con l’incarico di portare aiuto ai ribelli che nella provincia
di Corrientes (sul versante orientale dell’Argentina,
a nordovest dell’Uruguay) erano insorti contro il governo di Buenos
Aires: un’impresa suicida, perché si trattava di risalire
per oltre cinquecento miglia il fiume Paranà, controllato dalla
flotta argentina e in territorio nemico, e infatti, malgrado numerosi
episodi in cui Garibaldi diede prova del proprio talento tattico, la
sua flottiglia fu annientata e a fine estate egli riprese la strada
del ritorno.
Guerra civile, si diceva, e in quanto tale necessariamente
crudele e senza risparmio di atrocità, da ambo le parti: quasi
abituale la pratica delle truppe di Oribe di sgozzare i prigionieri,
però nel fronte opposto non vi era minore brutalità, e
lo stesso Garibaldi racconta dell’inutile sforzo d’impedire
ai propri uomini di saccheggiare e stuprare. Comunque non si trattò
semplicemente di una guerra locale: Francia e Inghilterra, ovviamente
per salvaguardare i propri interessi coloniali, intervennero in appoggio
dell’una e dell’altra parte, e gli echi del conflitto si
diffusero ben oltre l’America latina; per la prima volta la stampa
mondiale diventava a suo modo protagonista di un conflitto e trasformerà
oscure battaglie e sconosciuti comandanti in epici fatti d’armi
ed eroi fuori dal comune: al di là dei suoi indubbi meriti, Garibaldi
sarà il primo beneficiario di questa nuova epoca delle
comunicazioni, e nell’arco di pochi anni diventerà
in assoluto uno degli uomini più famosi al mondo. "I
giornali a larga diffusione sono la grande novità di quel periodo, […] occorrono notizie per alimentare le vendite"
e cosa poteva esserci di meglio che una guerra in un paese esotico,
con pianure sconfinate e acque solcate da corsari, tiranni sanguinari
e uomini intrepidi che guerreggiavano per la libertà?
Il modo stesso in cui si sviluppò quella guerra sembrava disegnato
apposta per il nascente sistema dei media. Le forze di Rivera sono ripetutamente
battute e il conflitto ormai è ridotto alla difesa di
Montevideo: un assedio che durò dalla metà del
1843 all’autunno del 1851 e che assunse i tratti della leggenda,
tanto che Alexandre Dumas padre scrisse enfaticamente
di una tragedia paragonabile a quella di Troia.
Garibaldi ottenne anche l’incarico di formare e comandare un corpo
di volontari, la cosiddetta Legione italiana, e proprio in quel periodo
comparvero le celebri camicie rosse: era notoriamente
il colore della rivoluzione, ma qualcuno sostiene che si trattò
di un caso, dovuto al fatto che Garibaldi intercettò un mercantile
che trasportava una partita di stoffa per la ditta incaricata di confezionare
i grembiuli dei macellai di Buenos Aires, e quindi ne approfittò
per dare una qualche uniforme ai propri uomini. Alle azioni di terra
Garibaldi applicò in un certo modo la tattica della guerra corsara,
sviluppando con perizia e fantasia tecniche di guerrilla
che lo resero giustamente pericoloso agli occhi dei generali avversari,
argentini o austriaci che fossero, avvezzi agli schemi tradizionali.
Ma per Garibaldi fu una fase significativa anche sul piano strettamente
politico: più ancora che durante il conflitto del Rio Grande
egli sperimentò direttamente il principio in base al quale guerra
e politica non sono mai disgiunte, ovvero, per parafrasare Ambrose Bierce,
la guerra è un periodo di imbrogli e di combattimenti fra due
periodi di soli imbrogli; non solo i giochi diplomatici fra le grandi
potenze condizionavano lo svolgersi degli avvenimenti, ma le lotte tra
fazioni si insinuavano prepotentemente all’interno dello stesso
schieramento indipendentista, con colpi di stato (lo stesso Rivera fu
prima esautorato e poi rimesso al potere), intrighi, corruzione.
Un quadro piuttosto sordido, a cui Garibaldi non si adeguò che
in minima parte: imparò certamente quanto talvolta siano necessari
gli artifici della politica - il compromesso, le alleanze, l’astuzia
- ma sviluppò un’avversione sempre più acuta verso
i politicanti senza principi e le diatribe prive di altro scopo se non
quello strettamente retorico; in altri termini, Garibaldi divenne del
tutto insofferente rispetto non solo ai discorsi inconcludenti ma anche
al dibattito, necessariamente faticoso e complesso, che si svilupperà
nell’ambito del movimento democratico, disdegnando, ad esempio,
lo scontro teorico fra le varie scuole di pensiero (pensiamo alle radicali
differenze di impostazione tra Bakunin, Marx, Mazzini) e tendendo ad
una eccessiva semplificazione dei termini dello scontro politico con
le monarchie assolutiste o le borghesie moderate: troppo spesso per
lui tutto si riduceva alla risolutiva essenzialità di un confronto
militare, con due forze apertamente contrapposte.
A metà ottocento, tuttavia, le società europee se da un
lato mantenevano una struttura relativamente semplice nella composizione
delle classi, nei processi produttivi, negli assetti istituzionali,
dall’altro presentavano già tutti gli elementi di complessità
che caratterizzano un mondo in profonda e irreversibile mutazione: la
tecnologia subisce un’accelerazione formidabile, i mercati si
espandono con prospettive del tutto nuove, le tendenze politiche si
diversificano enormemente a seconda del grado di sviluppo di ciascun
paese, e quindi le variabili che pesano sul divenire della storia diventano
sempre più numerose e sofisticate. Pensiamo soltanto, molto schematicamente,
al quadro delle forze motrici fondamentali nell’ambito del Risorgimento
italiano delineato da Gramsci:
la borghesia industriale del settentrione, i latifondisti del mezzogiorno
(con le peculiarità della Sicilia e della Sardegna), gli agrari
del centro-nord. È dall’interazione, contraddittoria e
confusa, fra questi gruppi, e le loro rappresentanze politiche, che
scaturiscono o, viceversa, si bloccano le possibili soluzioni: che esito,
infatti, avrebbe avuto l’impresa dei Mille se il Regno delle Due
Sicilie non fosse stato intrinsecamente debole e se al suo interno non
avessero agito tenacemente i cavouriani? Questa complessità sembra
sfuggire a Garibaldi, che, ad esempio, tende a definire un po’
troppo semplicisticamente il proprio conflitto con Torino. "Cavour
vuole un governo costituzionale di tipo francese, con un esercito stanziale
che potrà essere impiegato contro il popolo. Garibaldi vuole
un governo all’inglese, senza esercito stanziale, ma con la nazione
armata. Tutto qui il contrasto Cavour - Garibaldi? Si può vedere
la scarsezza di capacità politica del Garibaldi e la non sistematicità
delle sue opinioni."
Certo, lo spettacolo che danno di sé i politici uruguayani ed
argentini, ed i diplomatici europei, è assolutamente disdicevole,
ma l’insegnamento che ne trae Garibaldi pare davvero troppo sbrigativo.
Fatto sta che dal punto di vista strettamente pratico il futuro di Garibaldi
in America è ormai segnato: con tutta la stima guadagnatasi sia
come comandante militare sia come amministratore pubblico (proverbiale
l’onestà assoluta con cui egli gestì l’organizzazione
dei volontari), le forze che agiscono potentemente sul destino di Montevideo
vanno ben al di là della sua possibilità d’intervento,
e con tutto il rimpianto per dover abbandonare quell’epico teatro
di lotta, egli si decide a tornare in Italia e il 15 aprile 1848 s’imbarca sulla Speranza con una sessantina di compagni.
Garibaldi era per tanti aspetti ingenuo, ma non era uno sciocco: l’entusiasmo
con cui i compatrioti lo accolsero a Nizza e a Genova non gli fece dimenticare
che l’indipendenza nazionale era strettamente legata all’iniziativa
del regno di Sardegna e quindi non solo attenuò, almeno pubblicamente,
i propri toni repubblicani, ma si mise esplicitamente a disposizione
del re: eppure Carlo Alberto non era certo quel campione
dell’indipendenza che cercò di fare credere, e la sua ambizione
era più che altro "ingrandire il suo regnucolo piemontese
alle spese di Milano e di Venezia […] e prevenire o controllare
qualsiasi esplosione repubblicana nel resto dell’Italia settentrionale."
Il re rifiutò l’aiuto di quel pirata sovversivo e a tale
decisione contribuì molto l’ostilità nettissima
delle gerarchie militari piemontesi: generali formatisi secondo i canoni
accademici, praticamente senza alcuna esperienza di guerra guerreggiata,
inizialmente infastiditi da un Garibaldi che ritenevano più che
altro un ciarlatano ma in seguito parossisticamente gelosi di un uomo
che con tutta evidenza era uno stratega nato; e questo
ostracismo dell’establishment militare giocò poi
un ruolo decisivo nell’emarginazione sistematica che Garibaldi
dovette subire.
Allora andò a Milano, dove venne nuovamente accolto dall’entusiasmo
popolare e gli fu affidato il comando, col grado di generale, di un
piccolo contingente di volontari: finalmente poteva combattere per il
proprio paese, ma le grandi speranze durarono pochi giorni, finché
cioè l’esercito piemontese non venne sconfitto a Custoza;
Carlo Alberto gli ordinò di smobilitare, ma Garibaldi non volle
saperne e continuò una sorta di guerra privata contro l’Austria:
la mancanza di rifornimenti lo costringeva a rifornirsi requisendo il
necessario, e ciò provocò un diffuso risentimento fra
la popolazione. Anche per questo Garibaldi rimproverò sempre
ai contadini italiani la scarsa propensione ad impegnarsi
nella lotta per la libertà, in ciò confermando la propria
sostanziale incapacità di fare un’analisi accurata della
situazione concreta, perlomeno dal punto di vista sociale e culturale,
in cui si trovava l’Italia. Militarmente Garibaldi compì
i soliti prodigi: con pochi uomini, usando i metodi della guerriglia,
tenne in scacco per due settimane uno dei migliori eserciti del mondo,
finché non fu costretto a sciogliere il proprio contingente,
a dire il vero ormai ridottosi a poche decine di persone, e
a rifugiarsi in Svizzera.
Tornato a Nizza, nell’ottobre fu eletto deputato al Parlamento di Torino, ma, come ebbe modo di dire più volte,
il miglior modo di rappresentare il popolo era di offrirgli una spada,
e così organizzò una spedizione armata per combattere
il re di Napoli; l’estemporaneità di tale decisione assume
quasi il carattere di un "capriccio" se si osserva
il successivo percorso. Interrompe il viaggio per mare verso il sud
e si ferma in Toscana, dove nel frattempo si era formato un governo
repubblicano, e si adopera per far partire da Firenze una sollevazione
di tutta la penisola contro lo straniero: in effetti sarebbe diventata
una sorta di ossessione quella di immaginarsi alla testa di un esercito
popolare che percorreva ogni strada d’Italia suscitando la rivolta
e cacciando preti e stranieri, e, forse, sarebbe anche riuscito nell’impresa.
Comunque, anche grazie all’appoggio inesistente delle autorità
fiorentine, il risultato fu quello di mettere insieme poche centinaia
di uomini, e con essi partì alla volta di Venezia,
insorta nel marzo. Il 15 novembre venne assassinato il Ministro degli
Interni dello Stato pontificio, Pellegrino Rossi, l’uomo forte
del regime, il Papa fuggì improvvisamente e a Roma
fu proclamata la repubblica: Garibaldi fece dietrofront
e mosse risolutamente verso la città eterna.
Probabilmente non sperava che la Repubblica gli offrisse il comando
supremo delle forze armate, ma nemmeno si aspettava di essere relegato
nelle campagne, ancorché col grado di generale, con un piccolo
contingente: Garibaldi mordeva il freno, consapevole che la reazione
francese non si sarebbe fatta attendere, soprattutto dopo che il nuovo
tentativo antiaustriaco del Piemonte si era miseramente concluso con
la disfatta di Novara e l’abdicazione di Carlo
Alberto. Fedele alla propria abitudine di non aspettare mai l’iniziativa
del nemico, ma di incalzarlo anche quando i rapporti di forza non erano
favorevoli, magari puntando sull’effetto sorpresa, Garibaldi voleva
dirigere decisamente a sud, verso Napoli, ma Mazzini,
capo del triumvirato romano, decise di concentrare tutte le forze nella
difesa di Roma: l’irruenza di Garibaldi non era quasi mai temerarietà,
perché l’azione improvvisa aveva in genere buone probabilità
di riuscita rispetto ad eserciti nemici lenti e comandati da generali
troppo legati agli schemi della guerra campale. L’idea di Garibaldi
era quella di approfittare del fatto che i francesi avevano ancora un
contingente limitato e di scompaginare queste forze.
Nel frattempo gli oppositori della Repubblica romana si erano riorganizzati:
francesi, austriaci, spagnoli e napoletani mettevano in campo una potenza
di fuoco a cui non era possibile resistere, ed ecco che ancora una volta
Garibaldi propone una soluzione poco ortodossa; dislocare buona parte
delle forze repubblicane nelle campagne laziali, in piccoli gruppi in
grado di muoversi rapidamente, di sorprendere il nemico, di disimpegnarsi
rispetto agli scontri frontali: sì, nuovamente la guerriglia
poteva avere l’effetto se non di rovesciare completamente la situazione
perlomeno di logorare le truppe avversarie e di guadagnare tempo rispetto
alla formazione di eventuali altri contingenti di volontari.
Qui l’atteggiamento contraddittorio di Garibaldi è clamoroso:
di fronte alla litigiosità dei politici e ad una certa inconcludenza
dei regimi parlamentari, egli sosterrà sempre che le situazioni
di emergenza vanno affrontate affidando i pieni poteri ad un’unica
persona, consentendo quindi al dittatore di decidere in fretta e unicamente
dal punto di vista del bene comune; ebbene, a Roma la situazione era
di fatto questa, dato che nel triumvirato era sostanzialmente Mazzini
il perno delle decisioni, ciò non di meno Garibaldi dimostrò
assai poca disciplina nei confronti degli ordini ricevuti: con tutta
probabilità sotto il profilo tattico egli aveva perfettamente
ragione, ma, per l’appunto, non si può ragionevolmente
sostenere la centralità della catena di comando e poi, al lato
pratico, metterla in discussione. Si può addirittura ipotizzare
che in realtà, pensando al ruolo dittatoriale, Garibaldi guardava
soprattutto a se stesso, ed il sospetto è tanto più giustificato
se solo si pensa al reale disinteresse personale con
cui Garibaldi ha sempre agito.
Ed è anche da questi aspri contrasti che fra Mazzini e Garibaldi
si delinea un dissidio che non si sopirà mai, e anzi si andrà
accentuando negli anni, a tutto discapito di una linea unitaria e politicamente
forte dello schieramento democratico. In ogni caso prevalse la decisione
di Mazzini e la Repubblica si trovò a subire un assedio terribile.
"Mazzini sapeva ch’era finita, ma voleva che finisse
bene, e per finire bene Garibaldi era l’uomo che ci voleva".
Se, cioè, Garibaldi avesse diretto la difesa di Roma con la perizia
e il carisma che egli solo possedeva, quella sconfitta sarebbe stata
una vittoria simbolicamente più efficace di tanti effimeri successi.
E la resistenza guidata da Garibaldi fu innanzitutto
una straordinaria prova di forza morale di fronte al futuro imperatore
dei francesi il quale sosteneva sprezzante che "gli italiani
non sanno battersi": e invece "sulle mura di Roma
a quelle entusiastiche schiere rosse non resta oramai che combattere
per la gloria delle armi. Tutto è ridotto a informi mucchi di
macerie, i difensori fanno miracoli, ufficiali e soldati vanno a gara
nell’adempimento del loro dovere, pare che ognuno voglia, in quei
giorni estremi, illustrare colle proprie azioni la gloriosa caduta di
Roma."
Parole retoriche, forse, ma talvolta non ve ne sono altre possibili
per raccontare la storia.
La Repubblica è finita, il 30 giugno 1849 l’Assemblea
si riunisce per decidere che fare, e Mazzini espone lucidamente le alternative:
arrendersi, resistere fino al massacro, evacuare le truppe nella prospettiva
di proseguire la lotta; Garibaldi si presenta in Campidoglio lacero,
ferito, quasi che davvero pensasse a come poi lo avrebbero ritratto
le stampe popolari, ma il momento era totalmente tragico, non c’era
tempo per l’enfasi: appoggia Mazzini nella proposta di evacuazione,
è solidale con lui quando rassegna le dimissioni perché
l’Assemblea ha scelto invece di capitolare, e in piazza S. Pietro
raduna i suoi uomini ai quali offre "fame, sete, marce forzate,
battaglie e morte". In quattromila lo seguono nel suo piano
per raggiungere Venezia ed unirsi agli insorti, ma l’impresa era
disperata: si trattava di marciare per centinaia di chilometri in territori
battuti da borbonici, austriaci e papalini, e l’enorme prestigio
del generale, unito alle astuzie tattiche per sfuggire il nemico, non
valsero a rinsaldare un morale ormai a terra in uomini privi di qualsiasi
equipaggiamento e che dovunque arrivassero si trovavano rifiutati dalle
autorità e, spesso, anche dalle stesse popolazioni timorose delle
rappresaglie. Il 31 luglio, a S. Marino, Garibaldi sciolse formalmente
la Legione, già decimata dalle diserzioni, e con un piccolo nucleo
cercò di proseguire via mare per Venezia.
Le imbarcazioni furono intercettate dagli austriaci, e solo poche persone
riuscirono a toccare terra: di queste la maggior parte (tra cui Ugo
Bassi, il barnabita in camicia rossa) furono catturate e sbrigativamente
passate per le armi; Garibaldi si ritrovò praticamente da solo
a vagare per le paludi di Comacchio nel disperato tentativo di sfuggire
alle pattuglie che lo cercavano alacremente. Anita,
incinta di sei mesi e gravemente ammalata, era ormai allo stremo e non
riuscì a resistere: morì in una cascina vicino a Ravenna
e Garibaldi non poté trattenersi nemmeno per il tempo necessario
a seppellirla. Su questo episodio non fiorì solo la leggenda
dell’eroe che vede morire fra le proprie braccia la compagna che
combatteva insieme a lui: non pochi, anche su autorevoli giornali, furono
coloro i quali insinuarono che Garibaldi stesso avesse ucciso quella
donna, probabilmente incinta di un altro, per fuggire più agevolmente,
e che insieme al cadavere avesse anche sepolto un tesoro trafugato da
qualche basilica vaticana. Sordida assonanza con altre calunnie che
un secolo più tardi perseguiteranno altri garibaldini.
Eppure la leggenda continuò, e s’ingigantì:
una leggenda, si badi bene, sostanzialmente aderente alla realtà,
ma non per questo meno epica ed emozionante. Garibaldi entrò
definitivamente nella storia come uno dei personaggi più grandi
del suo tempo.
Sfuggito ai gendarmi Garibaldi riesce fortunosamente a riparare in Toscana
e poi in Liguria, ma il governo piemontese se ne vuole sbarazzare al
più presto: gli si dia un sussidio, lo si mandi in America, altrimenti
lo si arresti. Stranamente è proprio quel Parlamento che egli,
pur facendone parte, sdegnosamente non aveva mai frequentato, a esprimergli
solidarietà, votando a larga a maggioranza un ordine del giorno
nel quale si contesta la validità costituzionale dell’arresto
del generale e della minaccia di espellerlo dal regno.
Garibaldi non se la sente di dare battaglia sul piano giuridico, ringrazia
i tanti che lo hanno aiutato e preferisce andarsene: nel giugno del
1850, a quarantatre anni, col fisico minato dall’artrite, riprende
la strada dell’esilio, riprende il mare.
Nelle Memorie Garibaldi definì sempre come inutili,
oziosi, privi di interesse, gli anni passati lontano dai campi di battaglia,
eppure, se effettivamente le sue iniziative commerciali non sono degne
di nota, è pur vero che i numerosi viaggi ed
i periodi trascorsi in mare al comando di mercantili gli consentirono
senza dubbio esperienze di vita e contatti decisamente al di là
della portata di un uomo normale del XIX secolo o anche di numerosi
esponenti di primo piano di governi e Stati maggiori. New York, Canton,
Lima, Brisbane, sono solo alcuni dei porti che toccò in quei
quattro anni, finché, con i pochi risparmi messi da parte decise
che era tempo di ritornare in Europa.
A Londra conobbe alcuni personaggi di spicco del movimento rivoluzionario
internazionale, dal russo Herzen all’ungherese Kossuth, ma non trascurò la propria vita
privata, addirittura fidanzandosi con una bella signora della buona
società, Emma Roberts. Riprese i contatti con Mazzini, col sincero
intento di superare le vecchie incomprensioni, ma, se certamente era
ancora un entusiasta, aveva anche imparato a destreggiarsi meglio nell’agone
politico, tanto che si sforzò di dimenticare l’accoglienza
riservatagli dalla monarchia dopo la caduta di Roma e nuovamente indicò
nel re la figura che, unica, poteva guidare il processo d’indipendenza:
così si attirò ancora gli strali di Mazzini, il quale
parossisticamente anteponeva la fede repubblicana a qualsiasi analisi
politica, e poiché, in ogni caso, da Torino non gli giungevano
segnali particolarmente incoraggianti, decise di proseguire la fase
di attesa.
Forse sentiva anche il peso di un’età, cinquant’anni,
che a quell’epoca poteva considerarsi abbastanza avanzata, e desiderava
dedicarsi ai figli che aveva trascurato a lungo; oltre a tutto l’artrite
e gli altri acciacchi gli avrebbero reso impossibile riprendere il mare,
così acquistò quasi metà di Caprera,
una rocciosa isola dell’arcipelago della Maddalena.
Garibaldi descrisse quel periodo con le solite frasi sbrigative; in
realtà non fece solo l’agricoltore, navigò parecchio,
fu a Londra, e coltivò molte conoscenze femminili: per meglio
dire, erano soprattutto le signore ad interessarsi a lui, e la cosa
non gli dispiaceva affatto, salvo non immaginarsi imprigionato in una
vita matrimoniale scandita da obblighi sociali ed impegni mondani; ruppe
il fidanzamento con Emma Roberts, con cui tuttavia mantenne rapporti
di amicizia, s’impegnò in una intensa relazione con Maria
Espérance von Schwartz e fu certamente
un rapporto molto profondo, poiché la donna non solo gli perdonò
la figlia che nel 1859 egli ebbe da Battistina Ravello ma si assunse
anzi l’onere dell’educazione di questa bambina, Anita, e,
ancora, non ruppe con lui malgrado nel 1860 si fosse sposato, senza
dirle nulla, con Giuseppina Raimondi;
tanto più che questo matrimonio ebbe risvolti davvero grotteschi:
poche ore dopo la celebrazione Garibaldi seppe che la sposa era in attesa
di un bambino, ovviamente non suo, e quindi abbandonò immantinente
la scaltra fanciulla.
Se, dunque, fino al 1859 Garibaldi condusse sostanzialmente una vita
distante dall’impegno politico diretto, non interruppe i contatti
e le iniziative: nel ‘56 incontrò Cavour e, malgrado le enormi distanze ideologiche e l’assenza di qualsiasi
simpatia reciproca, fra i due si stabilì quello che poteva dirsi
a tutti gli effetti un accordo politico, basato sulla consapevolezza
che entrambi erano espressione di fattori essenziali e complementari
ai fini del processo di indipendenza: Cavour rappresentava l’alta
politica, il lavoro diplomatico, gli interessi delle classi dirigenti,
e, soprattutto, il peso della monarchia; Garibaldi era il punto di riferimento
delle classi popolari, il condottiero in grado di creare un esercito
dal nulla, lo stratega brillante capace di opporsi al nemico più
agguerrito. Entrambi diffidavano l’uno dell’altro, il primo
paventava il rigore rivoluzionario del nizzardo e l’ascendente
che questi poteva vantare fra le masse, il secondo temeva l’abilità
indiscutibile dello statista avvezzo agli intrighi e disposto a stroncare
ogni iniziativa che sfuggisse al proprio controllo: ma tutti e due capivano
che l’abilità dell’uno era inefficace senza lo spirito
di iniziativa dell’altro, e viceversa.
Si può dire, schematizzando al massimo, che da questo incontro
nacque la vera prospettiva politica di riscatto dell’Italia,
assai più concreta del rivoluzionarismo mazziniano.
Nel 1858 Garibaldi diede una dimostrazione pubblica di questo suo orientamento,
aderendo alla Società Nazionale promossa da
Daniele Manin proprio per unire in un fronte unitario
democratici e monarchici. E quando maturarono le condizioni prospettate
da Cavour, spingere l’Austria ad un atto di ostilità che
giustificasse l’entrata in guerra del Piemonte e del suo potente
alleato, la Francia, Garibaldi non esitò a mettersi a disposizione
e Cavour fece sì che egli venisse nominato ufficialmente generale
dell’esercito piemontese e assumesse il comando di un corpo di
volontari, i Cacciatori delle Alpi .
Garibaldi avrebbe voluto portare la guerriglia in Lombardia, per disorientare
il nemico e al tempo stesso spingere i lombardi all’insurrezione,
ma il piano venne messo da parte, sia perché una rivolta popolare,
ancorché sotto le bandiere dell’Italia, non poteva non
impensierire seriamente gli ambienti conservatori di Torino, sia perché,
come lo stesso Garibaldi fu costretto ad ammettere, in Lombardia e anche
altrove non c’era poi quell’incontenibile e unanime desiderio
di combattere per il solo fatto di essere italiani. Garibaldi fu costretto
ad un ruolo di secondo piano, con pochi uomini (circa 3.500 a fronte
dei 60.000 piemontesi e dei 120.000 francesi) e per di più male
equipaggiati, ma anche inesperti e indisciplinati: del numero di soldati
e della condizione degli armamenti. Garibaldi poteva a ragione incolpare
il governo, e in fondo anche la qualità del materiale umano dipendeva
in buona misura dalla ritrosia dello Stato Maggiore a rinforzare un
corpo guidato da un comandante notoriamente non ortodosso. Se in questa
precaria situazione Garibaldi poté effettuare efficaci azioni
di disturbo nei confronti dell’esercito imperiale, addirittura
sconfiggendolo in campo aperto a Varese, è ragionevole supporre
che con un vero esercito a disposizione il generale avrebbe potuto imprimere
alla guerra un esito sensazionale.
Ai primi di giugno, nell’arco di una settimana, gli austriaci
furono battuti a Palestro e a Magenta,
e anche qui Garibaldi vide giusto: occorreva sfruttare appieno il vantaggio
acquisito e non dare tregua al nemico, mentre l’esitazione dei
franco-piemontesi permise la riorganizzazione del fronte avverso, tanto
che gli schieramenti si fronteggiarono in una battaglia infernale, a
Solferino, senza che nessuno dei due riuscisse a prevalere.
Con l’armistizio di Villafranca (luglio ‘59)
il Piemonte ottenne una parte della Lombardia e qui Garibaldi confermò
che il suo senso politico non era poi così mediocre: una guerra
che avesse prodotto i risultati su cui puntava Cavour (acquisizione
di tutto il Lombardo-Veneto) avrebbe, paradossalmente, potuto fiaccare
non poco il percorso unitario, lasciando il Piemonte pago del proprio
rafforzamento. La situazione invece restava aperta, tanto più
che Firenze e Modena avevano cacciato i duchi e Bologna si era resa
indipendente dallo Stato pontificio: questi nuovi governi repubblicani
avevano costituito un proprio esercito e Garibaldi venne chiamato a
farne parte, come vice comandante sotto Manfredo Fanti. Purtroppo nulla
andò come Garibaldi aveva sperato: non solo non aveva il comando
supremo, ma ai suoi ufficiali era stato ordinato di disubbidirgli nel
caso avesse preso iniziative inconsuete; Vittorio Emanuele fece il doppio gioco: gli aveva lasciato intendere che, pur non potendolo
appoggiare ufficialmente, non lo avrebbe bloccato se avesse tentato
un colpo di mano contro lo Stato pontificio, ma alla prova dei fatti
da Torino vennero posti ostacoli insormontabili. Nell’insieme
la situazione era dominata da manovre politiche, conflitti personali,
oscure trame diplomatiche, e Garibaldi non era certo l’uomo adatto
a destreggiarsi più che tanto in simili paludi: a metà
novembre si dimise e tornò a casa.
Era francamente disgustato e infatti esitò a lungo prima di aderire
alla richiesta di fare da gran mediatore tra le varie fazioni democratiche,
divise e litigiose, al fine di arrivare alla loro unificazione: il tentativo
fallì miseramente, così come non riuscirono la sottoscrizione
per raccogliere un milione di fucili e l’organizzazione
del movimento Nazione Armata. Nondimeno Garibaldi continuò una
sua attività politica, addirittura tentando un riavvicinamento
con Cavour, del quale conosceva fin troppo bene l’abilità;
ma Torino aveva puntato tutto sull’alleanza con Parigi, e l’unico
modo per consolidarla era cedere alle pretese di Napoleone, così
nel marzo 1860 la Savoia e Nizza furono
cedute alla Francia.
Il rappresentante di Nizza al Parlamento di Torino, deputato Giuseppe
Garibaldi, fece una delle sue rare apparizioni in aula e sferrò
un attacco violentissimo contro il primo ministro che "barattava
uomini e popoli" e che per liberare l’Italia dallo straniero
l’asserviva ad un altro straniero, forse ancora più avido
e volgare. La rottura con Cavour non poteva essere più drastica
e l’ex parlamentare (si era dimesso subito dopo il discorso) prese
ancora una volta la strada di Caprera.
Ormai, però, il sogno di una vita, l’unità di un’Italia
indipendente, sembrava davvero realizzabile, con un regno di Sardegna
rafforzato e quasi tutta l’Italia centrale libera, e un regno
di Sicilia che forse vacillava per l’iniziativa dei rivoluzionari.
Le difficoltà organizzative erano comunque enormi: le armi acquistate
con la sottoscrizione furono sequestrate dal governo piemontese e quelle
procurate dalla Società Nazionale erano antiquate o addirittura
non funzionavano, e malgrado i numerosi aiuti finanziari non era impresa
da poco rifornire una spedizione di quel genere; e infatti i 1.089 uomini che sbarcarono in Sicilia avevano davvero un equipaggiamento
a dir poco approssimativo; anche procurarsi le navi non fu affatto semplice,
e tutti questi problemi, oltre alle considerazioni politiche di carattere
generale, lasciarono Garibaldi esitante fino all’ultimo. Comunque,
all’alba del 6 maggio, nei pressi di Genova, a Quarto,
l’avventura ebbe inizio.
Più volte, nel narrare le proprie vicissitudini, Garibaldi notò
come il caso risulti spesso essere l’elemento decisivo in una
battaglia, e anche in questo frangente ne abbiamo una conferma. Le due
navi dovevano procedere di conserva ma un malinteso fece sì che
si perdessero di vista, costringendole a impiegare varie ore per ritrovare
il contatto: il contrattempo fu provvidenziale, perché consentì
ai due vapori di non incrociare la flotta borbonica, che non avrebbe
avuto difficoltà a mettere fuori combattimento le vecchie imbarcazioni
dei garibaldini: in realtà la fortuna fu doppia, perché
le navi da guerra nemiche non erano nemmeno nel porto di Marsala, il
che avrebbe certamente impedito lo sbarco.
Ammaestrato dalle infelici esperienze avute nelle campagne lombarde,
Garibaldi ebbe l’accortezza di non presentarsi ai contadini semplicemente
come un "liberatore", o, peggio ancora, di limitarsi a proclamare
che prendeva possesso della Sicilia in nome di Vittorio Emanuele: diede
segni molto concreti del cambiamento, abolendo le tasse sul sale e sul
pane, e addirittura promettendo di ridistribuire il latifondo.
Dopo la travolgente vittoria di Calatafimi la strada
per Palermo era libera, tanto più che la notizia si sparse rapidamente
in tutta l’isola e l’appello ad attaccare i soldati borbonici
ovunque fossero ebbe un certo successo.
In realtà Garibaldi poteva contare su poco più di tremila
uomini male armati, mentre Palermo era molto ben difesa: ma a quel punto
niente sembrava potergli resistere, le sue truppe avevano acquistato
una fama certamente di gran lunga superiore alla loro effettiva forza,
e i focolai di rivolta all’interno della città contribuirono
a dare ai borbonici un quadro drammatico che era ben lungi dall’essere
aderente alla realtà. Così, quando il comandante della
piazza, il generale Lanza, preoccupato dall’andamento degli scontri,
decise di trattare, Garibaldi accentuò il bluff ed ottenne
praticamente una resa senza condizioni, a parte quella di consentire
il rientro via mare dei borbonici a Napoli.
A Milazzo le cose non andarono altrettanto bene e fra
i garibaldini vi furono quasi ottocento tra morti e feriti, tuttavia
ormai Garibaldi era padrone dell’isola. Anzi, ne divenne dittatore in nome del re, e così continuava la partita doppia: il Piemonte
ufficialmente non approvava, per non inimicarsi la Francia, e, a seconda
che Garibaldi avesse vinto o perso, era pronto a scaricarlo o ad onorarlo.
La parte decisiva dello scontro si prospettava sul continente, dove
i borbonici erano numerosi ed agguerriti e non sembrava sufficiente
il pur notevole ingrossamento delle fila garibaldine, che potevano adesso
contare su circa dodicimila uomini in Sicilia e ottomila al Nord al
comando di Bertani. Ma, incredibilmente, ancora una volta la leggenda
superava la realtà: in Calabria l’esercito borbonico si
sfaldò e dopo un’avanzata irresistibile il 7 settembre
Garibaldi entrò a Napoli. Fu per calcolo o per
pura temerarietà che il generale si concesse un formidabile coup
de théatre? Non entrò in città alla testa
delle sue colonne, ma solo con una piccola avanguardia, con la popolazione
che lo acclamava e i soldati nemici che invece di farlo fuori in un
baleno gli presentavano le armi.
Prima dittatore della Sicilia e ora di Napoli, doveva comunque fare
ancora i conti con il grosso dell’esercito di Francesco II, attestatosi
più a nord. Non che sottovalutasse questo ostacolo, però
non lo riteneva certo insormontabile rispetto all’obiettivo primario: liberare Roma.
Ciò nondimeno il gioco si faceva complesso, oltre che duro: tramite
numerosi agenti Cavour tesseva trame nelle città occupate e lavorava
alacremente per imprimere una decisa svolta moderata ai movimenti in
atto in tutta le penisola; Vittorio Emanuele faceva il triplo gioco,
cercando di mantenere i migliori rapporti con la Francia, con Garibaldi
e… col proprio primo ministro; Garibaldi navigava con inusitata
perizia in queste acque torbide, dimostrandosi assai più accorto
di come abitualmente viene descritto. Non solo aveva ben chiare tali
manovre, ma operò con grande senso politico nel governo della
città, lasciando un certo numero di ministeri ai meno radicali
e badando di non scontrarsi troppo apertamente con le forze cattoliche;
voleva battere sul tempo i progetti cavouriani e mettere la Francia
di fronte al fait accompli di una Roma capitale d’Italia.
Naturalmente Cavour si dimostrò il più abile di tutti:
prospettò al re le proprie dimissioni e una conseguente crisi
dagli esiti imprevedibili, costringendolo a rinnovargli la fiducia sul
piano formale e sostanziale; e immediatamente ordinò l’ingresso
delle truppe piemontesi in Umbria e nelle Marche, imponendo su gran
parte dello Stato pontificio l’autorità di un governo amico
della Francia e togliendo l’iniziativa ai rivoluzionari.
In un simile frangente aggirare l’esercito borbonico e puntare
a Roma diventava improponibile, così Garibaldi si risolse ad
affrontare i borbonici in campo aperto: la battaglia sul Volturno fu difficile e dall’esito nient’affatto scontato, e più
che altrove Garibaldi dimostrò le sue capacità di stratega.
La vittoria fu netta e altrettanto chiaro fu che la campagna era finita
lì.
Rifiutando sdegnosamente ogni ricompensa Garibaldi ritornò a
Caprera e al suo mestiere di agricoltore, così ingrato in quell’isola
con troppi sassi e poca terra: un gesto che, lungi dal riportarlo nell’ombra,
lo consacrò nella leggenda.
Difficile dubitare che non ne fosse ben consapevole: eletto deputato
del nuovo regno, nell’aprile
del 1861 si presentò in aula con la camicia rossa ed il mantello
bianco.
Era il primo ministro il grande avversario di Garibaldi, ma, paradossalmente,
quando poco tempo dopo Cavour morì, Garibaldi si rese conto che
il resto della classe politica era assai peggio: Cavour almeno era abile
e deciso, mentre costoro facevano dell’irresolutezza il proprio
credo. Ritornare a Caprera fu una scelta obbligata.
In realtà Garibaldi non intendeva certo estraniarsi dalla realtà
politica e Roma, insieme a Venezia, era sempre al centro dei suoi pensieri:
da un lato si adoperò attivamente nella campagna di raccolta
di fondi per l’acquisto di armi, dall’altro ebbe un’intensa
serie di colloqui a livello governativo per preparare quella spedizione
che egli riteneva inevitabile e imminente. Il primo ministro Rattazzi
giocò ancora più sporco di Cavour, e dopo aver prospettato
un’azione di comune intesa fece retromarcia, non senza forti momenti
di tensione.
Con notevole intuito politico Garibaldi scelse come base della propria
iniziativa quella Sicilia che lo aveva accolto trionfalmente: concentrò
armi e materiali, chiamò a raccolta qualche migliaio di volontari
da tutta Italia, s’impadronì di alcune navi e sbarcò
in Calabria.
Forse Napoleone stava addirittura meditando di disimpegnarsi e di lasciare
il papa al suo destino, tuttavia l’opinione pubblica cattolica
insorse e l’imperatore dovette mantenere ferma la posizione tradizionale;
dopo mille intrighi, anche Rattazzi ruppe gli indugi, temendo che si
fosse davvero in una fase prerivoluzionaria, e ordinò alle truppe
del generale Cialdini di intervenire con durezza. Alla fine di agosto,
ad Aspromonte si concluse la marcia su Roma.
Per Garibaldi, seriamente ferito, umiliato, abbandonato da molti suoi
sostenitori, l’esilio era ineluttabile.
Era talmente amareggiato che nel 1863, nel pieno della guerra di secessione,
quando Lincoln gli offrì il comando di un corpo
d’armata, rifiutò; forse anche perché non era stata
accolta la piccola condizione che aveva posto: il comando supremo di
tutte le truppe nordiste.
Il soggiorno in Inghilterra nella primavera dell’anno successivo
dimostrò al mondo intero quanto ormai fosse straordinaria la
fama che circondava Garibaldi: la popolazione gli tributò ovunque,
non solo a Londra, un’accoglienza strepitosa,
che non ebbe eguali in tutta la storia moderna, la stampa faceva a gara
nel dipingerlo come il più grande eroe del secolo, i salotti
e i circoli politici si contendevano accanitamente la sua presenza
Rientrato in Italia, accoglie in casa propria una giovane piemontese,
Francesca Armosino, in qualità di balia di uno
dei suoi nipoti: non si può certo dire che se ne innamorò
perdutamente, ma dopo qualche tempo si creò fra loro un legame
di affetto e di piacevole consuetudine, tanto che l’unione si
stabilizzò e da essa nacquero vari figli.
Passò un periodo molto tranquillo, fintanto che non si approssimò
un nuovo scontro con gli austriaci: non si trattò di un’iniziativa
italiana, bensì di un astuto piano di Bismarck,
il quale tramite una guerra contro l’Austria voleva sancire definitivamente
l’egemonia della Prussia sulla regione tedesca, e quindi volle
l’Italia come alleata per costringere Vienna ad impegnarsi su
di un secondo fronte.
Certamente Garibaldi si aspettava ben di più di quanto La
Marmora, nuovo primo ministro, gli offrì il comando
di un Corpo di Volontari equipaggiati in modo piuttosto approssimativo
e con pochissima esperienza, senza nemmeno poter contare su un’efficiente
catena di comando, dato che i migliori ufficiali garibaldini erano entrati
a far parte dell’esercito regolare.
I montanari tirolesi si guardarono bene dall’accogliere Garibaldi
come un liberatore, ciò nonostante il generale condusse le operazioni
con la solita perizia tattica: a Bezzecca bloccò
la discesa degli Austriaci e si aprì la strada per Trento. Avrebbe
potuto prendere la città in pochi giorni, quando gli arrivò
la notizia dell’armistizio e la sua secca riposta all’ordine
di fermarsi è diventata il più celebre telegramma della
storia.
Una guerra grottesca e inutile: gli Austriaci, maggiormente impegnati
contro l’avversario prussiano, erano nettamente inferiori e tuttavia
inflissero agli italiani due cocenti sconfitte, a Custoza
e a Lissa; i nipotini di Cavour, che vagheggiavano
Trieste e sognavano le Alpi come nuovo confine della patria, avevano
immaginato di poter usare la Prussia così come il conte aveva
usato la Francia, però appena Bismarck, ottenuto ciò che
voleva, si disimpegnò, non se la sentirono di andare fino in
fondo. Ma Venezia era italiana! Peccato che Vienna già mesi prima
fosse pronta a cedere la regione veneta senza contropartite purché
l’Italia restasse fuori dal conflitto.
Ancora una volta il sentimento che prevale in Garibaldi è l’amarezza:
non solo per l’inettitudine delle gerarchie militari e l’opportunismo
del governo, ma per il senso d’inutilità che sembrava accompagnare
il sacrificio dei tanti patrioti che avevano combattuto per l’unità
italiana. E vi era un unico modo per cancellare questa vergogna: cacciare
il Papa da Roma.
Garibaldi si avvicina rapidamente alla sua ultima battaglia, che, a
differenza delle altre, perderà.
È il risultato di quello che potremmo definire un potente vizio
ideologico. Garibaldi voleva credere che il sentimento nazionale e l’amor
di patria, che nella fattispecie si traducevano nell’obiettivo
di un’Italia unita, fossero inevitabilmente diffusi e quindi in
grado di travolgere meschinità politiche, egoismi individuali,
privilegi corporativi. E così il suo convincimento che ormai
vi fossero tutte le condizioni per liberare Roma poggiava su basi decisamente
fragili.
In qualche modo si ripeté quanto già accaduto con i Mille:
il governo da un lato lasciava intendere il proprio appoggio e dall’altro
agiva in vario modo per coprirsi le spalle nel caso l’impresa
di Garibaldi fosse fallita e avesse provocato una bufera diplomatica.
In questo altalenarsi di contatti e prese di distanza, il primo ministro
Rattazzi cercava evidentemente di "seguire la politica di Cavour,
senza la sua finezza". Tant’è che all’improvviso
decise di bloccare tutto e fece arrestare illegalmente il deputato Garibaldi,
salvo poi, di fronte alle proteste che immediatamente ne seguirono,
rispedirlo a Caprera. O forse il disegno era davvero sottile: il governo
aveva dimostrato la propria contrarietà verso la spedizione romana,
addirittura bloccandone l’artefice, ma se nello Stato pontificio
vi fosse stata un’insurrezione "spontanea" l’intervento
italiano sarebbe stato inevitabile al fine di preservare la legge e
l’ordine.
Fatto sta che Garibaldi riuscì a evadere dal soggiorno obbligato
nella sua isola, e arrivato a Firenze proclamò, parafrasando
quel Nelson che ammirava tanto, che "l’Italia si aspetta
che ciascuno compia il proprio dovere". Di fronte all’irrigidimento
della Francia, che allertò le truppe di stanza a Roma, Vittorio
Emanuele licenziò Rattazzi e ordinò di arrestare Garibaldi.
Avvertito dall’amico Crispi, Garibaldi riuscì a defilarsi
e a riunirsi con le proprie truppe. In effetti più che di truppe
si dovrebbe parlare di un fragile esercito, raccogliticcio e male armato,
che avrebbe dovuto affrontare soldati perfettamente addestrati ed equipaggiati,
senza neppure poter contare sull’insurrezione dei romani, ormai
dimentichi del sacro furore che li aveva animati nel lontano ‘49.
Malgrado l’esito favorevole di alcuni scontri iniziali, tra cui
la presa dell’importante roccaforte di Monterotondo, la resa dei
conti era ineluttabile, ed è sorprendente che un tattico così
brillante come Garibaldi non se ne fosse reso conto: a Mentana la sconfitta fu assoluta e Garibaldi si trovò nuovamente agli
arresti.
Ancora una volta Roma era irraggiungibile, e Garibaldi non poteva non
sentirsi tradito e umiliato: verosimilmente le numerose digressioni
polemiche delle Memorie, in cui attacca violentemente la classe
politica, Mazzini e il papato, hanno in Mentana il punto focale. In
ogni modo non è un caso che decise di modificare più volte
le Memorie, proprio per adeguarne lo svolgimento con le opinioni
ex post che si era formato in merito alle vicende italiane.
Negli anni successivi passò il proprio tempo a coltivare
la terra e a scrivere: è il periodo
in cui si dedicò alacremente alla stesura dei suoi romanzi storici,
che neppure la generosa collaborazione dell’amico Dumas riuscì
a far diventare qualcosa di più che modestissimi esercizi letterari,
dei quali si è praticamente persa ogni traccia. Se in molte occasioni
Garibaldi aveva dimostrato ampiamente la propria modestia, in questo
caso diede prova di una presunzione irragionevole, immaginando che la
propria esperienza di vita, per tanti versi unica, fosse sufficiente
a fargli ripercorrere le orme di Dumas o di Hugo.
Quando, cogliendo l’occasione del ritiro delle truppe francesi
dallo Stato pontificio e del loro invio sul fronte prussiano, il 20
settembre 1870 i soldati italiani entrarono finalmente a Roma,
Garibaldi non reagì con particolare gioia: più d’uno
commentò malignamente che ciò era dovuto al fatto che
egli non ebbe alcuna parte nella vicenda, e certamente il risentimento
personale ebbe gran peso in questo atteggiamento. E tuttavia, come dargli
torto? Aveva speso una vita, o almeno gran parte di essa, a predicare,
e a combattere, per la presa di Roma, per questo lo avevano arrestato,
sbeffeggiato, quasi ucciso, e ora, per mere ragioni di opportunità
politica, avevano compiuto l’impresa della sua vita non solo evitando
di coinvolgerlo minimamente, ma senza neanche una parola di omaggio
nei suoi confronti.
Deluso e amareggiato, reagì nel modo che gli era abituale: entrare
in azione. Nella guerra franco-prussiana era francamente arduo individuare
quale dei contendenti fosse "dalla parte della libertà",
ma dopo la battaglia di Sedan e il crollo dell’impero la nuova Repubblica francese apparve a Garibaldi una buona causa
per cui battersi, e partì senza indugio per Marsiglia.
Ingombrante questa presenza, e senza dubbio i governanti francesi ne
farebbero volentieri a meno, ma sull’onda dell’entusiasmo
popolare il plenipotenziario Gambetta è praticamente costretto
ad affidargli un comando: la cosiddetta Armata dei Vosgi,
in realtà poco più di cinquemila uomini.
Il generale ha ormai sessantaquattro anni, le antiche ferite si fanno
sentire, gotta e reumatismi lo debilitano, è costretto a spostarsi
in carrozza, ma, ad onta di quanto vanno dicendo i suoi detrattori,
è ancora un vecchio leone. E soprattutto non ha perso nulla delle
sue capacità di combattente.
Con quella truppa mediocre che si ritrova, tiene testa abilmente ad
un esercito composto da quarantamila prussiani, veterani spietati e
pronti a tutto, guidati da quel generale Werder che era considerato
uno dei soldati più temibili e capaci dell’epoca. Addirittura,
dopo tre giorni di combattimenti, a Digione ottiene
una strepitosa vittoria, riuscendo anche a catturare una delle due uniche
bandiere perse dai prussiani nel corso del conflitto. Così commentò
il Ministro della Guerra Freycinet: "È veramente il
nostro miglior generale", e dopo tante umiliazioni per Garibaldi
quel riconoscimento valse più di qualsiasi medaglia.
Come certamente sarebbe stato fiero di quel che ebbe a dire un Bismarck
furente e indignato al ricordo delle vicende del ‘66: "Questo Garibaldi spero che si riesca a prenderlo vivo. Lo metteremo in una
gabbia e lo esporremo a Berlino con un cartello: l’ingratitudine
italiana".
Le sorti della guerra sono comunque segnate, la Francia accetta un pesante
accordo di pace e l’Armata dei Vosgi viene sciolta.
Garibaldi vorrebbe tornare a casa, ma i suoi amici lo candidano alle
elezioni e viene eletto deputato in numerose circoscrizioni, tra cui
Nizza; a Parigi, poi, ottiene un successo clamoroso, prendendo addirittura
più di 200.000 voti e seguendo a ruota Louis
Blanc, Victor Hugo e Léon Gambetta.
L’Assemblea nazionale ha sede a Bordeaux (per espresso volere
di Bismarck) e si riunisce al Grand Théatre: Garibaldi vi entra
col poncho e la camicia rossa, la sinistra e il pubblico lo acclamano,
i deputati della destra lo insultano e gl’impediscono di parlare.
In realtà egli aveva già rinunciato alla carica, e quel
gesto volle essere un modo spettacolare, teatrale, appunto, per congedarsi
definitivamente dalla vita pubblica.
Il 18 marzo 1871 Parigi insorge, è la Comune.
Il suo Comitato Centrale chiede a Garibaldi di assumere il comando delle
truppe rivoluzionarie, ma il generale, pur manifestando la propria solidarietà,
declina l’incarico. Certamente la salute di Garibaldi è
pessima, ma non è solo per questa ragione che egli non si reca
a Parigi. All’Aspromonte si era rifiutato di sparare sui soldati
piemontesi, e sempre gli era ripugnata l’idea di combattere, anche
per una giusta causa, contro dei compatrioti: come poteva immaginare,
lui che era stato eletto deputato di Francia, di mettersi alla testa
di francesi che combattevano altri francesi?
Il rivoluzionario Garibaldi, l’alfiere del cosmopolitismo e della
fratellanza universale, si ritrova prigioniero di una visione angusta
e schematica della lotta politica e in questa occasione rivela i profondi
limiti del suo orizzonte politico: non comprende il significato universale
della Comune, il suo essere comunque un paradigma per le nascenti forze
della rivoluzione. In realtà, come è stato osservato da
più parti, la stessa maggioranza dei comunardi aveva sottovalutato
questo aspetto, e fu sostanzialmente Marx l’unico
che si rese conto di come la Comune avesse aperto una nuova strada per
l’internazionalismo.
E sarà più per sentimento che per riflessione politica
che più tardi Garibaldi rimpiangerà la propria decisione
di non essere stato in mezzo ai "soli uomini che in questo
periodo di tirannide e di menzogna, di codardia e di degradazione, hanno
tenuto alto il santo vessillo del diritto e della giustizia".
La sua vita era ormai a Caprera, e la vecchiaia si fa sentire sempre
di più, nonostante l’allegria e il vigore ritrovati con
la nascita di Manlio, il terzo figlio che gli dà Francesca Armosino,
dopo Clelia e Rosa.
Rieletto deputato, si reca raramente a Roma, e dopo aver accolto con
gioia l’andata al governo di Depretis (ufficiale
garibaldino al tempo dei Mille) ben presto prenderà le distanze
da quella Sinistra parlamentare che diede il meglio di sé nella
pratica del trasformismo. È l’ennesima delusione politica
di Garibaldi, che già aveva compromesso la propria appartenenza
al movimento socialista: aveva aderito entusiasticamente all’Internazionale
(è sua la celebre espressione "sole
dell’avvenire", riferita al socialismo), e quando
nel 1874 i primi militanti dell’Internazionale erano stati arrestati, Garibaldi fu tra i primi a difenderli pubblicamente;
era sì un rivoluzionario, ma più sul piano militare che
su quello politico: immaginava le masse che si ribellano in armi allo
straniero e all’oppressore ma non che trasformano questa guerra
in lotta per il potere. "La parola proletario non fa parte
del linguaggio garibaldino. Egli parla di Italiani, di popolo; non si
trova sotto la sua penna il riconoscimento della lotta di classe di
cui il proletariato sarebbe la forza motrice. Garibaldi preferisce dividere
il mondo secondo il principio del bene e del male."
Questo suo particolare moderatismo gli alienò le simpatie dell’Internazionale,
che appunto puntava sempre più ad elaborare una strategia politica,
tanto che alla fine del ‘74 essa invitò pubblicamente il
popolo italiano a non ascoltare l’interpretazione "equivoca " che del socialismo dava Garibaldi.
Il pacifismo universale, una sorta di umanesimo moderno
venato di pessimismo, diventa la filosofia dei suoi ultimi anni.
Non è dunque per un tardivo perbenismo (fra i molti difetti di
Garibaldi non vi era certo quello dell’ipocrisia), ma per un profondo
bisogno di armonia, che, sentendosi ormai alla conclusione della propria
esistenza, egli volle onorare la figura di Francesca Armosino, che per
tanti anni lo aveva amorevolmente assistito. Ottiene, non senza fatica,
l’annullamento del matrimonio con quell’Emma Raimondi che
l’aveva abbindolato tanto tempo prima, e finalmente, a settantatre
anni, sposa Francesca, con intorno tutta la sua grande famiglia.
Nella primavera del 1882 il suo vecchio amico Crispi,
siciliano, lo volle accanto a sé per le celebrazione del seicentesimo
anniversario del Vespri: è l’ultimo, trionfale viaggio
di un Garibaldi ormai stremato.
Tornato a Caprera, muore il 2 giugno.
Sulla pietra tombale viene incisa una stella, quella dei Mille, e sotto
solo un nome: Garibaldi.
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